E poi quello che potrei chiamare act local, think global. Radicarsi, avere molto presenti delle radici, dei sapori, dei saperi, dei legami - tradizioni, vecchi amici, storie di famiglia - identità forti, solidità. Per anni con i miei figli ho insistito di lasciare le briciole della cena del 12 dicembre sul tavolo da pranzo perchè nella notte l'asinello di Santa Lucia potesse rifocillarsi - da diversi anni non lo facciamo più, ovviamente, perchè i loro occhi non scintillano più al pensiero dell'asinello carico di doni, ma chissà, forse tra alcuni anni, con i loro figli, ricorderanno questa piccola tradizione.
Ma il local può facilmente trasformarsi in una gabbia, ti tiene ancorato ad una illusione di completezza di un mondo che è invece inevitabilmente piccolo e limitato e poco disposto al mutamento, coeso, ma separato, destinato ad essere schiacciato. L'Italia è molto così, piena di gente ingabbiata in mondi piccoli e ipoteticamente "superiori" ("ah, ma dove vai, dove viaggi, ma belli come l'Italia non ce n'è di altri posti").
Il global è il respiro del mondo, l'onda forte che bisogna percepire e usare e combattere al tempo stesso. Combattere l'immensità delle cose stupide e volgari, la Coca-Cola, il cibo di plastica, il populismo sciatto. Ma percepire le possibilità, la libertà, i cieli così immensi ed aperti. Sapere bene l'inglese, assumersi responsabilità, vedere la guerra, il dolore, lo sfruttamento - mettere la propria vita nella prospettiva della vita del mondo. Vedere con chiarezza che aggrapparsi ai nostri piccoli e grandi vantaggi e privilegi (per esempio lavorare con inefficienza, non essere mai valutati, essere al contempo completamente senza tutele e completamente inamovibili) ci porta ad un sicuro, un inesorabile declino.
E potendo ascoltare le mille voci del mondo ne cito qui una
"io non sono di qui. Non appartengo a questa terra dove sono nato; e nella vita si impara, impara chi vuole imparare, che nessuno appartiene alla terra dove è nato, dove l'hanno messo al mondo. Che nessuno è di nessun posto. Alcuni cercano di mantenere l'illusione e si costruiscono nostalgie, sensi di possesso, inni e bandiere. Tutti apparteniamo ai luoghi dove non siamo stati prima. Se esiste nostalgia, è per le cose che non abbiamo mai visto, per le donne con cui non abbiamo mai dormito, e per gli amici che ancora non abbiamo avuto, per i libri non letti, per i cibi nella pentola non ancora assaggiati. Questa è la vera e unica nostalgia" (PACO IGNACIO TAIBO II) in un momento della vita in cui time is getting short.
> L'amaca di Michele Serra del 1 novembre 2014
C I VOLEVA Eduardo perché un'aula della politica — il Senato — assumesse, almeno per poche ore, l'aspetto di una comunità raccolta, silenziosa, unita. Nessun berlusconiano si è alzato per dire che con la cultura non si mangia. Nessun renziano ha rivendicato al governo il merito di avere versato ottanta euro cadauno ai figli di Filumena Marturano. Nessuno della Lega ha gridato "Forza Vesuvio". Nessuno dei Cinque Stelle ha accusato Eduardo di essere stato favorito dalla lobby del Banco di Napoli a scapito di altri meritevoli commediografi operanti sul web. Nessuno della minoranza del Pd oppure di Sel ha protestato perché la commemorazione di Eduardo non era stata concordata anche con la Fiom. Nessuno del Nuovo Centro Destra si è sentito in dovere di difendere Alfano. E nessuno della SVP ha chiesto chiarimenti sulla mancanza di traduzione simultanea in tedesco mentre Lina Sastri recitava la scena madre di Filumena. Tutti zitti e tutti seduti, e tutti sembravano emozionati anche a nome nostro. Non c'eravamo e avremmo voluto esserci, ma ci siamo sentiti, una volta tanto, rappresentati dai rappresentanti. E c'è ancora chi si chiede a cosa serve la cultura, a cosa l'arte.
Magistrale questa amaca, un po' amara, un po' ironica, leggera come un petalo, caustica come un peperoncino. La condivido per chi se la fosse persa.
E poi ci si chiede a cosa servono gli intellettuali... A vedere e mostrare, ecco