Appunti dalla lectio magistralis tenuta da Massimo Recalcati nell’ambito della rassegna “Il rumore del lutto”, 22 ottobre 2023
Di che cosa siamo fatti noi umani? Siamo fatti delle parole degli altri, non delle nostre parole, ma delle parole che abbiamo incontrato. Siamo fatti delle parole con cui gli altri hanno definito la nostra vita, a volte causandoci traumi e dolore, ma anche gioia, amore, amicizia.e poi siamo fatti degli incontri che ci sono capitati nella nostra vita, buoni e cattivi.
Siamo fatti però anche di tutti i nostri morti, delle perdite che hanno scavato nelle nostre vite, delle lacune e dei deficit, di persone significative che abbiamo incontrato e perduto. È importante dire che nella FORMA UMANA della vita la morte è sempre PREMATURA (non lo è per la foglia, per l’ape), è sempre INNATURALE, porta sempre con sè una dose di atrocità e ingiustizia. Noi vogliamo sempre vivere ancora (H. Arendt “Noi siamo fatti per nascere, non per morire”). La vita è un soffio, un battito di ciglia e i nostri giorni sono contati (Ecclesiaste), ma attenzione! Tutte le forme di vita hanno i giorni contati, ma solo la vita umana CONTA i giorni e questo fa la differenza.
Il lutto è una reazione emotiva alla perdita di un oggetto significativo per la nostra vita. Ma quale perdita? Ci sono due dimensioni della perdita: la prima è la perdita NEL MONDO. Non posso più incontrare, toccare, vedere, parlare con la persona cara perduta. Seppellire qualcuno in luogo implica il miraggio del contatto, il tentativo di mantenere il contatto con la persona perduta (“vado al cimitero a trovare la mamma”).
La seconda dimensione della perdita é il vuoto, il buco che si apre nel NOSTRO CUORE, NELLA NOSTRA ANIMA.Il mondo è quello di prima, ma per noi non è più quello di prima (leggi C.S. Lewis, Diario di un dolore, Adelphi). D’altra parte, l’esperienza della perdita struttura costantemente la nostra vita (la perdita dell’utero materno quando si nasce, la perdita della consolazione del seno materno con lo svezzamento fino alla rescissione del legame familiare per diventare adulti…)
Quali sono i destini del lutto?
- il destino MALINCONICO del lutto. Il nero è il colore del lutto perché con il lutto i colori del mondo si spengono, il tempo si pietrifica e si immobilizza, si viene proiettati in dimensioni di introversione. Ma se il tempo si blocca allora il soggetto viene come aspirato dall’oggetto che non c’è più, rendendo impossibile la separazione dall’oggetto perduto. È vero che l’esperienza della perdita non coincide con il tempo della separazione, i tempi sono necessariamente sfasati, ma in un tempo più o meno lungo (il tempo del lavoro del lutto)l’esperienza della perdita diventa esperienza della separazione. Nella melanconia questo tempo non c’è, non si chiude, consegnando il soggetto a un destino fortemente depressivo, a una vita senza fulcro.
- il destino MANIACALE è esattamente l’opposto di quello malinconico: “non sento niente”, sostituisco immediatamente la perdita con qualcos’altro, “morto un papa se ne fa un altro. La procedura è sostitutiva, si procede alla negazione del lutto, alla sostituzione dell’oggetto perduto con nuovi oggetti che riempiono il vuoto. È un destino del lutto molto congruente con le spinte della nostra società contemporanea.
- il destino delLAVORO DEL LUTTO : non c’è malinconia e non c’è mania, si usa un lasso di tempo per trasformare la perdita in separazione. In questo processo continuiamo a vivere, lasciamo andare, ma tratteniamo con noi un “resto” della perdita. Tre sono gli elementi fondamentali del lavoro del lutto: il TEMPO (non esiste un lavoro del lutto rapido), la MEMORIA (bisogna ricordare e non siamo noi i padroni del ricordo. I ricordi arrivano, si impongono) e il DOLORE (non esiste lavoro del lutto indolore). A un certo punto, però, il lavoro del lutto finisce e si torna a respirare, la vita si alleggerisce. Il lavoro del lutto finisce quando la perdita si trasforma da peso per la vita a linfa per la vita.
Bellissimo e ricostruttivo del lavoro del lutto è un piccolo pezzo tratto da “Così parlò Zarathustra” di Nietzche
Arrivato nella città più vicina, che sorgeva ai margini della foresta, Zarathustra vi trovò una gran folla radunata sulla piazza del mercato: perché avevano detto che si sarebbe visto un uomo camminare sulla corda. E Zarathustra così parlò alla folla:
«Io vi insegno il superuomo. L’uomo è qualcosa che deve essere superato. Che cosa avete fatto voi per superarlo?
Tutti gli esseri hanno finora creato qualcosa al di sopra di se stessi: e voi volete essere il riflusso di questo grande flusso e tornare piuttosto all’animale che superare l’uomo?
Che cos’è la scimmia per l’uomo? Una risata o una dolorosa vergogna. E proprio ciò dev’essere l’uomo per il superuomo: una risata o una dolorosa vergogna.
Voi avete fatto la strada dal verme all’uomo, e molto c’è ancora in voi del verme. Una volta eravate scimmie, e ancora adesso l’uomo è più scimmia di qualunque scimmia.
Ma anche colui che è più saggio tra voi, non è che un dissidio, un essere ibrido fra la pianta e Io spettro. Ma vi ordino io di diventare spettri o piante?
Vedete, io vi insegno il superuomo!
Il superuomo è il senso della terra. La vostra volontà dica: sia il superuomo il senso della terra!
Vi scongiuro, fratelli, rimanete fedeli alla terra e non credete a quelli che vi parlano di speranze ultraterrene! Essi sono degli avvelenatori, che lo sappiano o no.
Sono spregiatori della vita, moribondi ed essi stessi avvelenati, dei quali la terra è stanca: se ne vadano pure!
Una volta il sacrilegio contro Dio era il sacrilegio più grande, ma Dio è morto, e sono morti con Dio anche quei sacrileghi. Commettere sacrilegio contro la terra è ora la cosa più spaventosa, e fare delle viscere dell’imperscrutabile maggior conto che del senso della terra!
… Ma allora accadde qualcosa che fece ammutolire tutte le bocche e strabuzzare tutti gli occhi. Nel frattempo cioè il funambolo si era messo all’opera: era uscito da una porticina e camminava sulla corda, che era tesa fra due torri, così che era sospesa al di sopra del mercato e della folla. Ma quando era giusto a metà del percorso, la porticina si riaprì e ne saltò fuori un tipo variopinto simile a un buffone, il quale andò a rapidi passi dietro al primo. «Muoviti, sciancato» gridò con voce terribile «muoviti poltrone, impostore, faccia sbiancata! Se non vuoi che ti solletichi col mio calcagno! Che stai a fare qui fra le due torri? Dentro la torre, dovresti stare, lì ti si dovrebbe rinchiudere, te che sbarri la strada a uno che è migliore di te!» E a ogni parola che diceva gli si faceva più vicino. Senonché, quando non era più che a un passo da lui, avvenne la cosa terribile, che fece ammutolire tutte le bocche e strabuzzare tutti gli occhi: cacciò un urlo da indemoniato e superò con un balzo quello che gli impediva il cammino. Ma l’altro, vedendosi superato dal rivale, perse la testa e l’equilibrio; lasciò cadere l’asta e schizzò, più veloce di questa, giù nel vuoto con un mulinello di braccia e gambe. La piazza e la folla sembrarono il mare quando è investito dalla tempesta: tutti fuggivano da tutte le parti, ma poi si ritrovavano a calpestarsi, e ciò soprattutto là dove stava per schiantarsi il corpo.
Zarathustra invece rimase fermo, e proprio accanto a lui venne a cadere il corpo, malridotto e spezzato ma non ancora morto. Dopo un momento, lo sfracellato riprese coscienza, e vide Zarathustra inginocchiarsi accanto a lui. «Che cosa fai tu qui?» disse infine; «sapevo da un pezzo che il diavolo mi avrebbe dato lo sgambetto. Ora mi trascina all’inferno: vuoi forse impedirglielo?»
«Sul mio onore, amico» rispose Zarathustra «niente di quello che dici esiste: non esiste il diavolo e non esiste l’inferno. La tua anima morirà prima ancora del corpo: non aver dunque più paura di niente!»
L’uomo guardò Zarathustra con diffidenza. «Se tu dici la verità» disse poi «allora io perdendo la vita non perdo niente. Non sono molto più di un animale a cui è stato insegnato a ballare, a forza di bastonate e di bocconi striminziti».
«Ma no» disse Zarathustra «tu hai fatto del pericolo il tuo mestiere, e in ciò non c’è nulla da disprezzare. Ora perisci per il tuo mestiere: per questo ti seppellirò con le mie mani.»
Quando Zarathustra ebbe detto ciò, il moribondo non rispose più; ma mosse la mano, come cercando la mano di Zarathustra per ringraziarlo.
Frattanto si andava facendo sera e la piazza del mercato veniva avvolta dall’oscurità: allora la folla si disperse, giacché anche la curiosità e la paura si stancano. Zarathustra invece rimase seduto a terra accanto al morto, sprofondato nei suoi pensieri: e così non si accorse del tempo che passava. Ma alla fine si fece notte, e un vento freddo si mise a soffiare sul solitario. Allora Zarathustra si alzò e disse al suo cuore:
In verità, una bella pesca ha fatto oggi Zarathustra! Non ha preso nessun uomo, sibbene un cadavere.
Un mistero inquietante è l’esistenza umana e ancor sempre senza senso: un buffone può esserle fatale.
Voglio insegnare agli uomini il senso del loro essere: che è il superuomo, il fulmine che scaturisce dall’oscura nube uomo.
Ma ancora sono lontano da loro, e quel che io sento non parla ai loro sensi. Per gli uomini io sono ancora qualcosa di mezzo tra un pagliaccio e un cadavere.
Oscura è la notte, oscure sono le vie di Zarathustra. Vieni, freddo e rigido compagno! Ti porterò in un luogo dove ti seppellirò con le mie mani.
Detto che ebbe ciò al suo cuore, Zarathustra si caricò il cadavere sulle spalle e si mise in cammino. Ma non aveva fatto ancora cento passi che un uomo gli si accostò di soppiatto e prese a sussurrare al suo orecchio — e, guarda, colui che parlava era il buffone della torre! «Va via da questa città, Zarathustra» disse; «troppi qui ti odiano. Ti odiano i buoni e giusti, chiamandoti loro nemico e disprezzatore; ti odiano i seguaci della fede verace, chiamandoti il pericolo della moltitudine. È stata la tua fortuna che si sia riso di te: e veramente, hai parlato come un buffone. È stata la tua fortuna che tu ti sia accompagnato a questo cane morto; abbassandoti così, per oggi ti sei salvato. Ma va via da questa città — o domani salterò al di sopra di te, un vivo al di sopra di un morto.» E detto ciò, l’uomo sparì; ma Zarathustra continuò a camminare per i vicoli bui.
Alla porta della città incontrò i becchini: essi gli fecero luce in viso con la fiaccola, riconobbero Zarathustra e lo schernirono molto. «Zarathustra porta via il cane morto: ma bravo, Zarathustra si è fatto becchino! Perché le nostre mani sono troppo pulite per questo arrosto. Vuole forse Zarathustra rubare al diavolo il suo boccone? Ebbene, buon prò! E buon appetito per il pranzo! Purché il diavolo non sia miglior ladro di Zarathustra! Purché non li rubi entrambi, non li divori entrambi!» E sghignazzavano tra loro, celiando e confabulando.
… Dopo di ciò Zarathustra camminò per altre due ore, confidando nel sentiero e nel chiarore delle stelle: per abitudine era infatti nottambulo e amava guardare in faccia le cose che dormono. Ma quando cominciò ad albeggiare, Zarathustra si ritrovò nel profondo di una foresta, in cui non si vedeva più alcun sentiero. Allora depose la morte nella cavità di un albero, all’altezza della sua testa — volendo proteggerlo dai lupi — e si stese egli stesso per terra, sul muschio. E subito si addormentò, col corpo stanco ma con l’anima immota.
Zarathustra dormi a lungo, e non solo l’aurora passò sopra il suo viso, ma anche la mattinata. Alla fine però riaprì gli occhi. Guardò meravigliato la foresta e il silenzio, guardò meravigliato in se stesso. Poi si levò di scatto, come un navigante che scorga a un tratto la terra, ed esultò: giacché aveva scorto una verità nuova. E così parlò allora al suo cuore:
Mi si è fatta luce dentro: ho bisogno di compagni e di uomini vivi — non di compagni morti e di cadaveri da portare con me dove voglio.
Ma di compagni vivi, ho bisogno, che mi seguano perché vogliono seguire se stessi — e là dove io voglio.
Il grande filosofo Jean-Luc Nancy, quando morì, lasciò solo un biglietto con scritto “Portatemi con voi”, non pregate per me, non andate alla mia tomba,ma portatemi con voi.
Il passato non è semplicemente un cimitero, il passato DIPENDE DA NOI. Esercitiamo responsabilità verso il futuro, ma anche rispetto al passato. Ogni volta che andiamo avanti risignifichiamo e attingiamo al nostro passato, lo “poetiamo con noi.
PS: come mai c’è un odierno dilagare (si vede nella pratica clinica) di disagi legati alla malinconia? Ovvio che il lutto malinconico è una patologia, ma evidenzia anche una verità: l’oggetto perduto è davvero insosituibile…