Non volevo scrivere questo post. Non dovevo nemmeno scriverlo. Sono nauseata dalla morbosità dell’attenzione, degli approfondimenti e delle chiacchiere che gravitano intorno al dramma di Giulia Cecchettin e Filippo Turetta. Però ho pensato cose, tutte apparentemente scollegate tra loro e poi hanno assunto un qualche filo logico.
La prima cosa è stata una rabbia profonda che ho provato a quella che è stata la prima dichiarazione di Filippo Turetta quando l’hanno catturato. “Ho ucciso la mia ragazza”. Qui è evidente. Non era più la sua ragazza (da mesi) e comunque non era “sua”. Ho provato una rabbia bianca e bruciante per quel “mia” e ho pensato che era un aggettivo possessivo orribile, da non usare mai, da evitare. Poi, alcuni giorni fa, il composto, civilissimo padre di Giulia, al funerale, non so come ha trovato la forza di dire “la mia Giulia” riuscendo a mettere in quel “mia” tutto l’amore e la devozione possibile, tutta la vicinanza che l’amore sa dare. E allora ho pensato che non è l’aggettivo possessivo il problema, ma il significato che quel possessivo ha. Subito dopo, ho pensato che nessuno ha insegnato a Filippo Turetta quei significati, che soprattutto i suoi genitori non glieli hanno insegnati, e ho pensato ai genitori di Filippo Turetta, ai loro rimpianti e rimorsi attuali. E no, non ho provato a identificarmi con loro, non ci ho nemmeno pensato.
La seconda cosa riguarda il fatto che i genitori di Filippo Turetta hanno tardato alcuni giorni prima di incontrare il figlio. Lí ho provato a metttermi nei loro panni e ho pensato che non so se avrei potuto al loro posto incontrare un figlio che avesse commesso una cosa così inenarrabile (inenarrabile mi sembra l’aggettivo perfetto, perchè narrando una storia la metti in chiaro, ci fai i conti. Questa storia per me non è in questa accezione narrabile, anche se tutti ne parlano). E comunque non credo avrei potuto perdonarlo, anche se è mio figlio. Un pensiero orribile, su cui non mi sono soffermata, ma che è evidentemente rimasto con me, perché la sera, con amici, in pizzeria, quando siamo andati sull’argomento, ho dato voce a questo pensiero, per quanto solo, a dire il vero, a mezza voce. Un’amica che era lí con me mi ha (amorevolmente) obiettato “Ma ai figli bisogna stare vicino”. Sottovoce, ho risposto “Non so se potrei, è come se avesse ammazzato anche me”.
Adesso è tutto un chiacchiericcio su ergastolo-sí, ergastolo-no e anche questo mi infastidisce. L’entità della punizione la decideranno persone che in base ad un corpus di leggi piuttosto burocraticamente precise nel comminare punizioni e ad approndimenti minuziosi che non possono essere fatti sui giornali, sentenzieranno quanto tempo Filippo Turetta (sono a disagio a chiamarlo Filippo solamente, credo di voler mantenere le distanze) dovrà stare in prigione. Quello che è certo è che Gino, Elena e Davide Cecchettin hanno già l’ergastolo di una vita senza Giulia, che Filippo Turetta ha l’ergastolo della dicitura “mostro” e la sua prigionia sarà un calvario quotidiano per sottrarlo alla vendetta degli altri detenuti e che i genitori di Filippo Turetta hanno l’ergastolo di un figlio non perdonabile. E Giulia non disegnerà mai più.
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