Questa piccola storia necessita di un’ampia premessa.
Roberto è entrato nel capitale di impresa di un’azienda agricola che tra le sue attività ha la produzione biologica e la vendita di prodotti biologici (i freschissimi) e trasformati (tipo farine, passati, sottaceti) di propria produzione o di produzione di piccoli produttori locali. Gestore dell’Emporio è un giovane taciturno e molto competente e appassionato di materie prime, ottimo cuoco (ogni tanto feste e cene a tema stagionale: es festa della “tomaca” , festa del peperoncino o storico: es a cena con i Borbone ecc.), lavoratore instancabile che da Udine è venuto a laurearsi in Gastronomia a Parma e poi si è messo a lavorare come responsabile dell’Emporio che ha fatto crescere con amore. Si chiama Luca (nome di fantasia).
In questo periodo difficile lui e la sua piccola “brigata” hanno organizzato un servizio costante, competente, sempre sul pezzo e sempre ragionando sul valore di essere vicino ai clienti che a loro volta hanno mostrato fedeltà e attaccamento continuando a venire numerosi. Luca ha ovviamente pensato necessario, come servizio in momenti in cui il bisogno non è fittizio ma reale, di organizzare sia un servizio di ordini e preparazione della spesa da ritirare in negozio sia la consegna a domicilio della spesa. Ha lavorato alacremente con il direttore dell’azienda e due venerdì fa è partito il servizio di consegna a domicilio già con una richiesta molto alta dal primo giorno di apertura: 36 ordini in un giorno. Pur avendo incaricato due baldi giovanotti, fornitori dell’azienda di prodotti trasformati e al momento con il lavoro fermo, Luca ha preferito fare lui stesso la prima consegna per rendersi conto di eventuali difficoltà, criticità o intoppi, in modo eventualmente da correggerli. È partito con le consegne alle due del pomeriggio e ha finito alle otto di sera.
Il martedì successivo sono partiti a consegnare i due simpatici e bravi fratelli abruzzesi: 24 consegne dalle due del pomeriggio fino alle dieci di sera.
Preparando con Luca gli ordini per il giorno dopo, il direttore dell’Azienda si è chiesto ad alta voce “Non che mi interessi visto che li paghiamo a consegna effettuata, ma come mai tu hai consegnato 36 ordini in quattro ore e loro, in due, ci hanno messo otto ore a consegnare 24 ordini?”. Luca ha risposto, con le poche parole che lo caratterizzano, forse senza nemmeno alzare gli occhi dal lavoro, “Beh, io sono friulano”.
Così semplice, a pensarci...
lunedì 30 marzo 2020
ESSERE FRIULANI?
domenica 29 marzo 2020
QUESTA È L’EUROPA CHE VOGLIAMO
Lui si chiama Edi Rama, è il primo ministro dell’Albania. Ieri, nel giorno in cui il suo Paese ha mandato a sue spese un team di 30 medici e infermieri in Italia per combattere il Coronavirus, ha tenuto un discorso memorabile. Lo ha fatto interamente nella nostra lingua, dando una lezione di politica, di stile, di solidarietà e anche di italiano a tutta Europa e a milioni di persone.
“Qui in Albania sembrerà strano che trenta medici e infermieri della nostra piccola armata in tenuta bianca partiranno per la linea del fuoco in Italia. So che trenta medici e infermieri non ribalteranno il rapporto tra la forza micidiale del nemico invisibile e le forze in tenuta bianca che lo stanno combattendo nella linea del fuoco dall'altra parte del mare. Ma so anche che laggiù ormai è casa nostra da quando l'Italia, le nostre sorelle e i fratelli italiani ci hanno salvato, ospitato e adottato in casa loro quando l'Albania bruciava di dolori immensi. Noi stiamo combattendo lo stesso nemico invisibile, le risorse umane e logistiche della nostra guerra non sono illimitate ma oggi noi non possiamo tenere le forze di riserva in attesa che siano chiamate, mentre in Italia si stanno curando in ospedali di guerra anche albanesi feriti dal nemico, e hanno un enorme bisogno di aiuto. È vero che tutti sono rinchiusi nelle loro frontiere e anche paesi ricchissimi hanno girato la schiena agli altri, ma forse esattamente perché noi non siamo ricchi, ma nemmeno privi di memoria, non ci possiamo permettere di non dimostrare all'Italia che gli albanesi e l'Albania non abbandonano mai l'amico in difficoltà. Questa è una guerra dove nessuno può vincere da solo e voi, cari membri coraggiosi di questa missione per la vita, state partendo per una guerra che è anche la nostra. E l'Italia la deve vincere questa guerra, e la vincerà, anche per noi, anche per l'Europa e il mondo intero.”
Non ci sono parole per ringraziare quest’uomo, questa piccola nazione e il suo grande popolo.
Ecco, questa è l’Europa che vogliamo.
“Qui in Albania sembrerà strano che trenta medici e infermieri della nostra piccola armata in tenuta bianca partiranno per la linea del fuoco in Italia. So che trenta medici e infermieri non ribalteranno il rapporto tra la forza micidiale del nemico invisibile e le forze in tenuta bianca che lo stanno combattendo nella linea del fuoco dall'altra parte del mare. Ma so anche che laggiù ormai è casa nostra da quando l'Italia, le nostre sorelle e i fratelli italiani ci hanno salvato, ospitato e adottato in casa loro quando l'Albania bruciava di dolori immensi. Noi stiamo combattendo lo stesso nemico invisibile, le risorse umane e logistiche della nostra guerra non sono illimitate ma oggi noi non possiamo tenere le forze di riserva in attesa che siano chiamate, mentre in Italia si stanno curando in ospedali di guerra anche albanesi feriti dal nemico, e hanno un enorme bisogno di aiuto. È vero che tutti sono rinchiusi nelle loro frontiere e anche paesi ricchissimi hanno girato la schiena agli altri, ma forse esattamente perché noi non siamo ricchi, ma nemmeno privi di memoria, non ci possiamo permettere di non dimostrare all'Italia che gli albanesi e l'Albania non abbandonano mai l'amico in difficoltà. Questa è una guerra dove nessuno può vincere da solo e voi, cari membri coraggiosi di questa missione per la vita, state partendo per una guerra che è anche la nostra. E l'Italia la deve vincere questa guerra, e la vincerà, anche per noi, anche per l'Europa e il mondo intero.”
Non ci sono parole per ringraziare quest’uomo, questa piccola nazione e il suo grande popolo.
Ecco, questa è l’Europa che vogliamo.
sabato 28 marzo 2020
L’ADDIO AI TEMPI DEL CORONAVIRUS
Ieri è morta la mamma ottantanovenne di Roberto, la splendida Bianca, la mamma che ho sempre invidiato a mio marito - amorevole, svanita, passata leggera sulla vita (il suo primo ricovero ospedaliero l’ha avuto a 88 anni, per esempio).
Non è morta di Coronavirus, ma ha avuto non si sa bene come definirlo giusto, un ictus? Un malore? Un collasso? Che l’ha fatta morire in un attimo, nel suo bagno mentre stava facendo la pipì.
Ha avuto una lunga e buona vita e anche una buona morte. Era terrorizzata e confusa da questo periodo che non capiva - non capiva perché non poteva uscire e perché noi non andavamo più se non parlando sulla porta o dal balcone e tutta la gente che moriva.... facciamo fatica noi, figuriamoci lei che aveva allentato per motivi anagrafici l’aderenza alla realtà.
Continua questo stillicidio di dolore di perdere persone amate e, di più, pezzi importanti della nostra vita che ci hanno accompagnato per tanto tempo e per un tempo fondamentale. Mi ricordo una vignetta che avevo visto su Facebook lo scorso Natale che diceva “ Il mio Natale preferito è quando c’eravamo ancora tutti” - sembrava impossibile, ma quei Natali sono finiti per sempre.
Oggi abbiamo fatto il “ funerale” ai tempi del Coronavirus. Ieri è venuta l’agenzia di pompe funebri a vestirla e comporla e a portare la cassa, ma non l’hanno messa dentro per paura di non passare per le scale. La Bianca ha quindi passato l’ultima notte nel suo letto e non nell’apposita “Sala del Commiato”, poi stamattina l’hanno portata giù, messa nella bara nell’ingresso del condominio, sigillato e poi avvitato la bara, posto sulla bara un bel mazzo di fiori, messa sul carro funebre seguito dalle nostre due macchine per i trecento metri che separano casa di mia suocera dal cimitero di Colorno. Al cimitero, che è chiuso, siamo entrati da un’entrata laterale, qui ci ha raggiunto il parroco di Colorno che ha impartito una breve benedizione cui abbiamo assistito in tre: io, Roberto e la badante della Bianca tutti ben distanziati e con mascherine e guanti. Il signore delle pompe funebri ha sfilato due rose dal mazzo e le ha infilate nel crocifisso incollato sopra la bara, hanno infilato la bara nell’avello e poi sono rimasti due operai (li conoscevamo entrambi, entrambi in pensione e quindi probabilmente lí come volontari AUSER) a chiudere l’avello.
La giornata era spettacolare e calda, il cimitero pieno di fiori in boccio, il silenzio regnava sovrano tranne le poche chiacchiere, fatte anche a voce bassa, di noi che eravamo presenti.
Mia suocera non sarebbe stata contenta: lei partecipava finché ha potuto a tutti i funerali dove incontrava parenti e amici che da lungo tempo non vedeva, abbracciava con le lacrime agli occhi i parenti del defunto, apprezzava le belle corone di fiori, la visita alla salma, il rito funebre e le parole di commemorazione del parroco (e il rosario la sera prima). Io invece odio i funerali, il chiacchiericcio, odio il rito funebre e ancora di più la commemorazione tranne pochi dignitosi casi, non capisco la fede, non piango quasi mai, non mi piace la pressione sul dolore che inevitabilmente ogni funerale esercita. Devo essere strana, lo so, non me ne vanto, anzi a volte mi preoccupo.
Così questo addio ai tempi del Coronavirus l’ho trovato più adatto a me, quieto, raccolto, nel sole e nel silenzio, senza orpelli e rumori di sottofondo, la malinconia che prevale, l’assenza che si fa vento, silenzio e profumo. Addio, nonna Bianca, che il passo ti sia lieve.
Non è morta di Coronavirus, ma ha avuto non si sa bene come definirlo giusto, un ictus? Un malore? Un collasso? Che l’ha fatta morire in un attimo, nel suo bagno mentre stava facendo la pipì.
Ha avuto una lunga e buona vita e anche una buona morte. Era terrorizzata e confusa da questo periodo che non capiva - non capiva perché non poteva uscire e perché noi non andavamo più se non parlando sulla porta o dal balcone e tutta la gente che moriva.... facciamo fatica noi, figuriamoci lei che aveva allentato per motivi anagrafici l’aderenza alla realtà.
Continua questo stillicidio di dolore di perdere persone amate e, di più, pezzi importanti della nostra vita che ci hanno accompagnato per tanto tempo e per un tempo fondamentale. Mi ricordo una vignetta che avevo visto su Facebook lo scorso Natale che diceva “ Il mio Natale preferito è quando c’eravamo ancora tutti” - sembrava impossibile, ma quei Natali sono finiti per sempre.
Oggi abbiamo fatto il “ funerale” ai tempi del Coronavirus. Ieri è venuta l’agenzia di pompe funebri a vestirla e comporla e a portare la cassa, ma non l’hanno messa dentro per paura di non passare per le scale. La Bianca ha quindi passato l’ultima notte nel suo letto e non nell’apposita “Sala del Commiato”, poi stamattina l’hanno portata giù, messa nella bara nell’ingresso del condominio, sigillato e poi avvitato la bara, posto sulla bara un bel mazzo di fiori, messa sul carro funebre seguito dalle nostre due macchine per i trecento metri che separano casa di mia suocera dal cimitero di Colorno. Al cimitero, che è chiuso, siamo entrati da un’entrata laterale, qui ci ha raggiunto il parroco di Colorno che ha impartito una breve benedizione cui abbiamo assistito in tre: io, Roberto e la badante della Bianca tutti ben distanziati e con mascherine e guanti. Il signore delle pompe funebri ha sfilato due rose dal mazzo e le ha infilate nel crocifisso incollato sopra la bara, hanno infilato la bara nell’avello e poi sono rimasti due operai (li conoscevamo entrambi, entrambi in pensione e quindi probabilmente lí come volontari AUSER) a chiudere l’avello.
La giornata era spettacolare e calda, il cimitero pieno di fiori in boccio, il silenzio regnava sovrano tranne le poche chiacchiere, fatte anche a voce bassa, di noi che eravamo presenti.
Mia suocera non sarebbe stata contenta: lei partecipava finché ha potuto a tutti i funerali dove incontrava parenti e amici che da lungo tempo non vedeva, abbracciava con le lacrime agli occhi i parenti del defunto, apprezzava le belle corone di fiori, la visita alla salma, il rito funebre e le parole di commemorazione del parroco (e il rosario la sera prima). Io invece odio i funerali, il chiacchiericcio, odio il rito funebre e ancora di più la commemorazione tranne pochi dignitosi casi, non capisco la fede, non piango quasi mai, non mi piace la pressione sul dolore che inevitabilmente ogni funerale esercita. Devo essere strana, lo so, non me ne vanto, anzi a volte mi preoccupo.
Così questo addio ai tempi del Coronavirus l’ho trovato più adatto a me, quieto, raccolto, nel sole e nel silenzio, senza orpelli e rumori di sottofondo, la malinconia che prevale, l’assenza che si fa vento, silenzio e profumo. Addio, nonna Bianca, che il passo ti sia lieve.
martedì 24 marzo 2020
FARE IL PUNTO (SEMISERIO)
Dunque, da quel che leggo in giro la situazione oggi è la seguente: quelli che stanno a casa ce l'hanno con quelli che escono, mentre quelli che sono costretti ad uscire ce l'hanno con quelli che possono rimanere a casa. Quelli con i bambini ce l'hanno con quelli con i cani perché i cani possono uscire e i bambini no, mentre quelli con i cani ce l'hanno con tutti quelli che ce l'hanno con loro perché portare fuori il cane è la cosa più noiosa dell'avere un cane e ne farebbero volentieri a meno.
Quelli che non fanno sport ce l'hanno con quelli che vanno a correre perché se mi rompo i coglioni io è giusto che te li rompa anche tu, a prescindere da quanto la tua attività in solitaria possa essere pericolosa. Quelli che si rompono i coglioni ce l'hanno con quelli che si divertono sui balconi e quelli che si divertono ce l'hanno con quelli che gli rompono i coglioni. Quelli che non fumano e non giocano, ce l'hanno con quelli che affollano le tabaccherie e quelli che affollano le tabaccheria ce l'hanno con quelli che vanno al supermercato due volte al giorno che a loro volta ce l'hanno con quelli che escono il cane che a loro volta ce l'hanno col cane che per altro comincia ad annusare la primavera e non potendo sfogarsi al parco come faceva fino a ieri, di solito si sfoga con un divano, con cuscino e a volte con la gamba di qualche umano.
Poi ci sono quelli che ce l'hanno col governo, col marito, con il Papa, con il vicino, con l'Europa, con gli scienziati, con la Cina, con i lombardi, con le sardine, il Circolo del tennis, la televisione, le dame di San Vincenzo e un po' anche con il virus, ma quello reagisce malissimo ed è meglio non stuzzicarlo.
Gli altri sono malati.
Vi vedo un po' nervosetti, avete finito il lievito?
(Post FB di Giovanna Hugues)
Quelli che non fanno sport ce l'hanno con quelli che vanno a correre perché se mi rompo i coglioni io è giusto che te li rompa anche tu, a prescindere da quanto la tua attività in solitaria possa essere pericolosa. Quelli che si rompono i coglioni ce l'hanno con quelli che si divertono sui balconi e quelli che si divertono ce l'hanno con quelli che gli rompono i coglioni. Quelli che non fumano e non giocano, ce l'hanno con quelli che affollano le tabaccherie e quelli che affollano le tabaccheria ce l'hanno con quelli che vanno al supermercato due volte al giorno che a loro volta ce l'hanno con quelli che escono il cane che a loro volta ce l'hanno col cane che per altro comincia ad annusare la primavera e non potendo sfogarsi al parco come faceva fino a ieri, di solito si sfoga con un divano, con cuscino e a volte con la gamba di qualche umano.
Poi ci sono quelli che ce l'hanno col governo, col marito, con il Papa, con il vicino, con l'Europa, con gli scienziati, con la Cina, con i lombardi, con le sardine, il Circolo del tennis, la televisione, le dame di San Vincenzo e un po' anche con il virus, ma quello reagisce malissimo ed è meglio non stuzzicarlo.
Gli altri sono malati.
Vi vedo un po' nervosetti, avete finito il lievito?
(Post FB di Giovanna Hugues)
venerdì 20 marzo 2020
SOLITUDINE
Così, in questa notte del pieno del Coronavirus, dovrei andare a letto e non mi decido, non percepisco più il senso di andare a letto a una certa ora e svegliarmi in un’altra data ora - sembra tutto mischiato, confuso. Ho paura ? Un po’, forse, ma nemmeno tanta. Roberto è stato ammalato la settimana scorsa, ha avuto qualche giorno di febbre non alta e senza altri sintomi, ma da domenica è senza febbre e sta bene, anche se viviamo in questa grande casa in camere diverse, con bagni diversi, mangiando separati e in luoghi diversi. Ci parliamo alzando la voce tra una stanza e l’altra - parla più al telefono con i suoi colleghi, forse dovrei telefonargli.
Oggi mio fratello ha iniziato anche lui - la febbre non è alta, ma lui ha in casa e cura mia madre ottantacinquenne e non autosufficiente. Un po’ di paura, ma ancora gestibile, anche se si sobbalza ad ogni piccolo colpo di tosse.
Un po’ di paura per il futuro economico del nostro paese e anche della nostra famiglia, in uno scenario che si prefigura apocalittico.
I figli, ringraziando il cielo, sono insieme a Zurigo, non sono completamente al sicuro, è ovvio, nessuno lo è, ma stanno bene, sono in un posto bellissimo e si vogliono bene e sono tranquilla per loro.
La madre ottantanovenne di Roberto è rintanata in casa con una brava badante e sarà quel che sarà.
Quindi un po’ di paura, ma soprattutto un desolante senso di solitudine - mi sento sola, e non se ne vede la fine. Così mi stanca ogni sforzo per fare cose, uscire a prendere il giornale, a fare spesa (per la prima volta da 15 giorni, date le molte risorse casalinghe di cui dispongo, in mezzo a una fila disciplinata di fantasmi silenziosi, dotati di protezioni e senza voglia di scambiarsi nemmeno una parola), mi stanca persino leggere e questa notte sembra infinita...
La forza di andare a letto me la dà la speranza che arrivi finalmente questo benedetto e maledetto picco...
In solitudine.
Oggi mio fratello ha iniziato anche lui - la febbre non è alta, ma lui ha in casa e cura mia madre ottantacinquenne e non autosufficiente. Un po’ di paura, ma ancora gestibile, anche se si sobbalza ad ogni piccolo colpo di tosse.
Un po’ di paura per il futuro economico del nostro paese e anche della nostra famiglia, in uno scenario che si prefigura apocalittico.
I figli, ringraziando il cielo, sono insieme a Zurigo, non sono completamente al sicuro, è ovvio, nessuno lo è, ma stanno bene, sono in un posto bellissimo e si vogliono bene e sono tranquilla per loro.
La madre ottantanovenne di Roberto è rintanata in casa con una brava badante e sarà quel che sarà.
Quindi un po’ di paura, ma soprattutto un desolante senso di solitudine - mi sento sola, e non se ne vede la fine. Così mi stanca ogni sforzo per fare cose, uscire a prendere il giornale, a fare spesa (per la prima volta da 15 giorni, date le molte risorse casalinghe di cui dispongo, in mezzo a una fila disciplinata di fantasmi silenziosi, dotati di protezioni e senza voglia di scambiarsi nemmeno una parola), mi stanca persino leggere e questa notte sembra infinita...
La forza di andare a letto me la dà la speranza che arrivi finalmente questo benedetto e maledetto picco...
In solitudine.
giovedì 19 marzo 2020
C’È
Non voglio fare della retorica, che è la nostra malattia nazionale, né delle considerazioni politiche: a crisi finita, si vedrà chi ha agito bene e chi ha sbagliato. La retorica è però particolarmente insidiosa, vischiosa, ti si appiccica addosso senza che tu lo voglia e sono quasi sicura di non riuscire -ahimè - ad evitarla del tutto. Le considerazioni politiche, inoltre, non sono solo posizionamenti politici, ma anche occhi e occhiali con cui si “legge” il mondo quindi anche queste non posso evitarle del tutto. Diciamo che cerco di parare il problema cercando di capire quello che mi piace, limitando al massimo i distinguo e le polemiche, anche se c’è molto (e molto insito negli stessi mi piace) che mi infastidisce.
Incomincerei dicendo che a me questa Italia spaventata, reclusa, desolata ma dignitosa piace molto. Mi sembra che finalmente stiamo tornando ai fondamentali del vivere civile che il rumore di sottofondo di ogni giorno spesso copre, azzera, mette in scena come finiti e antiquati.
Mi piacciono, è perfino banale dirlo, i medici e gli infermieri che non sono affatto “gli eroi”, come si dice con troppa enfasi e superficialità, ma uomini e donne che fanno il loro dovere con semplicità e rispettando i loro sacri giuramenti, la loro dirittura morale e anche probabilmente gli insegnamenti e gli esempi di bravi genitori e maestri (sí, esistono ancora, ne sono certa). Adesso sforo consapevolmente nella retorica: l’altra sera al Tg1 c’era una giovane medico di Parma cui facevano il tampone e che sperava che fosse negativo non per sé ma perché, diceva con assoluta semplicità, “vorrei tornare in corsia prima possibile”. In quel momento l’ho sentita vicina, quasi figlia mia.
Mi piace che si parli più di doveri che di diritti, spesso immaginari o assurdi o semplicemente privilegi. Mi piace che si parli del dovere di pagare le tasse come connesso al diritto alla salute. Mi piace che la banale ma fondamentale circostanza che è prioritario non danneggiare gli altri diventi opinione generale, sentire comune. Mi piace che finalmente nel novero degli “altri” ci siano i più fragili, i più deboli e che finalmente non se ne parli come un peso, ma come una parte a pieno diritto della nostra vita. Mi piace che si riscoprano le basi classiche, cristiane e umaniste delle nostra civiltà, in fondo non tanto lontano dalle basi confuciane della società cinese, per cui l’idea di fare morire qualche migliaia di vecchi per salvare l’economia è indecente, impensabile, oscena. Mi piace la pietas verso chi soccombe, i deboli, i malati. Mi piace che non si pratichi la selezione naturale che sacrifica i deboli per rafforzare i forti. È l’Italia, come qualcuno ricordava, di Enea, ma anche di Francesco d’Assisi e di Giovanni Pico della Mirandola.
Mi piace, e lo dico da atea, che si torni a impetrare l’aiuto divino, inginocchiandosi agli stessi altari dei padri e dei padri dei padri. Servirà? Io credo di no, ma ha forte senso simbolico che il vescovo di Roma vada a piedi come un semplice pellegrino a pregare Dio di fermare il virus, la paura, il buio del significato della vita.
Mi piace che sui balconi spunti il Tricolore e si canti l’Inno. Mi piace che i social siano inondati di video e di messaggi d’amore per questo Paese di incomparabile splendore spesso offuscato da questa idea funesta di essere il meglio (e il peggio) del mondo. Questi momenti non hanno niente a che fare con il nazionalismo: il nazionalismo è triste, diffidente, si nutre di nemici e di senso di superiorità, mentre la comunità, la condivisione, la vicinanza, servono a rassicurarci, a mettere in comune le angosce e la speranza di tutti.
La tragedia di una certa parte culturalmente minoritaria cui appartengo è quella di amare davvero e fuori di retorica l’Italia senza però stimarla troppo nei suoi vizi e nelle sue cialtronerie, ma adesso posso amarla anche con un pizzico di orgoglio. E spero che qualcosa rimanga, anche dopo la fine dell’emergenza, quando la notizia principale tornerà ad essere l’ennesima sparata di Salvini e quanto sia cattiva l’Europa e quanto vada male l’economia. E i neri che ci invadono. Almeno, so che c’è e almeno potrò continuare a cercarla.
(Da un post Facebook di Federico Mattioli, con mie integrazioni)
Incomincerei dicendo che a me questa Italia spaventata, reclusa, desolata ma dignitosa piace molto. Mi sembra che finalmente stiamo tornando ai fondamentali del vivere civile che il rumore di sottofondo di ogni giorno spesso copre, azzera, mette in scena come finiti e antiquati.
Mi piacciono, è perfino banale dirlo, i medici e gli infermieri che non sono affatto “gli eroi”, come si dice con troppa enfasi e superficialità, ma uomini e donne che fanno il loro dovere con semplicità e rispettando i loro sacri giuramenti, la loro dirittura morale e anche probabilmente gli insegnamenti e gli esempi di bravi genitori e maestri (sí, esistono ancora, ne sono certa). Adesso sforo consapevolmente nella retorica: l’altra sera al Tg1 c’era una giovane medico di Parma cui facevano il tampone e che sperava che fosse negativo non per sé ma perché, diceva con assoluta semplicità, “vorrei tornare in corsia prima possibile”. In quel momento l’ho sentita vicina, quasi figlia mia.
Mi piace che si parli più di doveri che di diritti, spesso immaginari o assurdi o semplicemente privilegi. Mi piace che si parli del dovere di pagare le tasse come connesso al diritto alla salute. Mi piace che la banale ma fondamentale circostanza che è prioritario non danneggiare gli altri diventi opinione generale, sentire comune. Mi piace che finalmente nel novero degli “altri” ci siano i più fragili, i più deboli e che finalmente non se ne parli come un peso, ma come una parte a pieno diritto della nostra vita. Mi piace che si riscoprano le basi classiche, cristiane e umaniste delle nostra civiltà, in fondo non tanto lontano dalle basi confuciane della società cinese, per cui l’idea di fare morire qualche migliaia di vecchi per salvare l’economia è indecente, impensabile, oscena. Mi piace la pietas verso chi soccombe, i deboli, i malati. Mi piace che non si pratichi la selezione naturale che sacrifica i deboli per rafforzare i forti. È l’Italia, come qualcuno ricordava, di Enea, ma anche di Francesco d’Assisi e di Giovanni Pico della Mirandola.
Mi piace, e lo dico da atea, che si torni a impetrare l’aiuto divino, inginocchiandosi agli stessi altari dei padri e dei padri dei padri. Servirà? Io credo di no, ma ha forte senso simbolico che il vescovo di Roma vada a piedi come un semplice pellegrino a pregare Dio di fermare il virus, la paura, il buio del significato della vita.
Mi piace che sui balconi spunti il Tricolore e si canti l’Inno. Mi piace che i social siano inondati di video e di messaggi d’amore per questo Paese di incomparabile splendore spesso offuscato da questa idea funesta di essere il meglio (e il peggio) del mondo. Questi momenti non hanno niente a che fare con il nazionalismo: il nazionalismo è triste, diffidente, si nutre di nemici e di senso di superiorità, mentre la comunità, la condivisione, la vicinanza, servono a rassicurarci, a mettere in comune le angosce e la speranza di tutti.
La tragedia di una certa parte culturalmente minoritaria cui appartengo è quella di amare davvero e fuori di retorica l’Italia senza però stimarla troppo nei suoi vizi e nelle sue cialtronerie, ma adesso posso amarla anche con un pizzico di orgoglio. E spero che qualcosa rimanga, anche dopo la fine dell’emergenza, quando la notizia principale tornerà ad essere l’ennesima sparata di Salvini e quanto sia cattiva l’Europa e quanto vada male l’economia. E i neri che ci invadono. Almeno, so che c’è e almeno potrò continuare a cercarla.
(Da un post Facebook di Federico Mattioli, con mie integrazioni)
TENTARE LA BATTAGLIA?
Stiamo assistendo, senza sorpresa per la veritá, che il sovranismo, a livello globale si sta distinguendo nella lotta al virus per la sua incompetenza e per le clamorose marce indietro, questo sì, solo dopo aver compromesso la salute di milioni di persone. Sembra quasi che ci sia stata una regia unica, perché é difficile credere che tutti i governi non sovranisti abbiano seguito chi piú, chi meno le indicazioni dell'OMS mentre i governi, nazionali e locali in mano sovranista abbiano fatto l'esatto contrario. Per prima cosa hanno preso sotto gamba la situazione, non perdendo l'occasione di fare del bullismo da veri sciacalli quali sono. Il caso del nostro Salvini, sciacallo professionista, sará studiato nei libri di storia di domani. E poi che dire di Johnson e di Trump? E di Bolsonaro? Gestioni catastrofiche che in questioni di pochi giorni daranno i loro terribili frutti. Poi c'é Putin che addirittura ne sta approfittando per creare ancora piú confusione e panico e lo fa come sempre a modo suo, attraverso la produzione di fake news che creano “opinione” tra i meno attrezzati.
Eppure, mai come ora a mio parere le fondamenta stesse del sovranismo sono in difficoltà, come molto meglio di me sa dire Ezio Mauro nel suo articolo di ieri: il trattare i cittadini da adulti consapevoli, il riconoscimento della enorme complessità dei problemi cui non è possibile dare risposte semplicistiche, la serietà di chi fa le cose che riavvicina le c.d. elites al c.d. “popolo”, la valorizzazione della competenza e della scienza, la paura reale contrapposta alle paure ad arte gonfiate dei sovranisti, questa consapevolezza crescente che il virus non conosce confini e nessuno si salva da solo, questi grandi sacrifici fatti sí per sé, ma soprattutto per gli altri. Basterà? Temo di no, ma almeno si può tentare la battaglia?
Eppure, mai come ora a mio parere le fondamenta stesse del sovranismo sono in difficoltà, come molto meglio di me sa dire Ezio Mauro nel suo articolo di ieri: il trattare i cittadini da adulti consapevoli, il riconoscimento della enorme complessità dei problemi cui non è possibile dare risposte semplicistiche, la serietà di chi fa le cose che riavvicina le c.d. elites al c.d. “popolo”, la valorizzazione della competenza e della scienza, la paura reale contrapposta alle paure ad arte gonfiate dei sovranisti, questa consapevolezza crescente che il virus non conosce confini e nessuno si salva da solo, questi grandi sacrifici fatti sí per sé, ma soprattutto per gli altri. Basterà? Temo di no, ma almeno si può tentare la battaglia?
lunedì 16 marzo 2020
giovedì 12 marzo 2020
mercoledì 11 marzo 2020
PICCOLA BUFFA STORIA DI CORONAVIRUS
Anna ha una cara amica del liceo che qui per comodità chiamerò Giulia.
Giulia è una ragazza molto intelligente, simpatica, con le sue originalità come tutti tra cui essere molto legata al suo paese della Bassa parmense, al suo papà, alla sua mamma e a sua sorella. Adesso, sposata, laureata, dottorata, insegna all’università di Milano nell’ambito delle scienze matematiche e vive nel suo paese, nella stessa casa (in piani diversi) dei suoi genitori con il suo marito anche lui matematico che insegna all’università di Bologna.
La sua (amatissima) mamma, che, cito da un messaggio vocale Whatsapp che ha mandato ad Anna per raccontarle questa storia “ che te lo devo raccontare perché tu conosci mia mamma e conosci la sua follia che esce nei momenti più impensabili” è un’amabile ed elegante signora che lavora da sempre in banca e con una posizione importante ed è la protagonista della storia. Racconterò la storia in gran parte con le stesse parole di Giulia (sono quelle tra virgolette) perche è irresistibile anche il modo stesso in cui l’ha raccontata. Immaginiamo la voce di Giulia che racconta.
La mamma “purtroppo per tutti noi, è a casa dal lavoro. L’hanno confinata a casa questa settimana. In pratica loro sono in sei e possono andare solo metà alla volta. Lei è a casa questa settimana e poi la prossima, PER FORTUNA, lei andrà” per una settimana è a casa in smart working. “Lunedì mattina lei sapeva già questa cosa perché gliela avevano comunicata domenica. Quindi lunedì mattina mia sorella che è l’unica che si deve alzare presto perché lavora in libreria ed è l’unica obbligata ad andare al lavoro, si alza alle sei e mezza e sente mia madre che si sta lavando i capelli e le dice “ma mamma, cosa fai, sono le sei e mezza, sei a casa..” e lei “Eh, ma oggi è una giornata lavorativa”. Morale, si è svegliata come sempre e ha fatto le cose di sempre. E fino a lî dici va be’ ok, ma aspetta...si è vestita, vestita di tutto punto, con camicia di seta, giacca, scarpe col tacco e tutto PER STARE IN CASA A LAVORARE. E la motivazione che lei ha addotto più e più volte perché noi eravamo sconvolti da questa cosa è che lei non riesce a separare le due vite e che l’unico modo che ha per farlo è vestirsi e fare tutto come se. Ti dico solo che è stata sul tavolo della cucina e a un certo punto mio papà ha apparecchiato dall’altra parte del tavolo fino a dove era lei perché lei aveva il computer e tutto e lei si è trasferita di mezzo metro per mangiare. Si è tolta le scarpe e si è messa in libertà perché era la sua pausa pranzo. Una cosa da rinchiuderla... e dopo finita la pausa pranzo se le è rimesse e si è messa a lato e ha continuato a lavorare. Tra l’altro, quando tu entravi lei ripeteva, parlava a voce alta e cose così e ovviamente nessuno la poteva disturbare o poteva fare niente. Ti ricordo che loro entrano in casa nostra perchè noi abbiamo il forno che era loro e non si sono decisi a comprarne uno nuovo e quindi ci fanno infornare in casa nostra le cose. Mio padre entra mentre faccio delle call con Skype e dice “eh, c’è la zucca” e se io mi incazzo mi dice “ Eh, ma insomma, è un attimo, non puoi metterla nel forno un attimo la zucca, cosa ti costa?”. Mia mamma non alzava neanche la testa, continuava a blaterare cose tutto il giorno. Questo ieri. Io oggi non sono ancora andata giù, anzi non ho intenzione di andarci, però mia sorella poverina che abita con loro, ieri sera era distrutta emotivamente, poverina. Io non so veramente come faremo” (risatina)
I figli ci osservano e ci conoscono fin troppo. Il mio personale commento è che questa amabile storia fa capire perché l’Italia, con tutti i suoi casini e le sue piccinerie e delinquenze, è diventata un grande paese. Perché ci sono queste signore (e signori) che con la schiena dritta, ogni mattina, fanno il loro lavoro, con sacrificio e al meglio che possono, in qualsiasi situazione.
Giulia è una ragazza molto intelligente, simpatica, con le sue originalità come tutti tra cui essere molto legata al suo paese della Bassa parmense, al suo papà, alla sua mamma e a sua sorella. Adesso, sposata, laureata, dottorata, insegna all’università di Milano nell’ambito delle scienze matematiche e vive nel suo paese, nella stessa casa (in piani diversi) dei suoi genitori con il suo marito anche lui matematico che insegna all’università di Bologna.
La sua (amatissima) mamma, che, cito da un messaggio vocale Whatsapp che ha mandato ad Anna per raccontarle questa storia “ che te lo devo raccontare perché tu conosci mia mamma e conosci la sua follia che esce nei momenti più impensabili” è un’amabile ed elegante signora che lavora da sempre in banca e con una posizione importante ed è la protagonista della storia. Racconterò la storia in gran parte con le stesse parole di Giulia (sono quelle tra virgolette) perche è irresistibile anche il modo stesso in cui l’ha raccontata. Immaginiamo la voce di Giulia che racconta.
La mamma “purtroppo per tutti noi, è a casa dal lavoro. L’hanno confinata a casa questa settimana. In pratica loro sono in sei e possono andare solo metà alla volta. Lei è a casa questa settimana e poi la prossima, PER FORTUNA, lei andrà” per una settimana è a casa in smart working. “Lunedì mattina lei sapeva già questa cosa perché gliela avevano comunicata domenica. Quindi lunedì mattina mia sorella che è l’unica che si deve alzare presto perché lavora in libreria ed è l’unica obbligata ad andare al lavoro, si alza alle sei e mezza e sente mia madre che si sta lavando i capelli e le dice “ma mamma, cosa fai, sono le sei e mezza, sei a casa..” e lei “Eh, ma oggi è una giornata lavorativa”. Morale, si è svegliata come sempre e ha fatto le cose di sempre. E fino a lî dici va be’ ok, ma aspetta...si è vestita, vestita di tutto punto, con camicia di seta, giacca, scarpe col tacco e tutto PER STARE IN CASA A LAVORARE. E la motivazione che lei ha addotto più e più volte perché noi eravamo sconvolti da questa cosa è che lei non riesce a separare le due vite e che l’unico modo che ha per farlo è vestirsi e fare tutto come se. Ti dico solo che è stata sul tavolo della cucina e a un certo punto mio papà ha apparecchiato dall’altra parte del tavolo fino a dove era lei perché lei aveva il computer e tutto e lei si è trasferita di mezzo metro per mangiare. Si è tolta le scarpe e si è messa in libertà perché era la sua pausa pranzo. Una cosa da rinchiuderla... e dopo finita la pausa pranzo se le è rimesse e si è messa a lato e ha continuato a lavorare. Tra l’altro, quando tu entravi lei ripeteva, parlava a voce alta e cose così e ovviamente nessuno la poteva disturbare o poteva fare niente. Ti ricordo che loro entrano in casa nostra perchè noi abbiamo il forno che era loro e non si sono decisi a comprarne uno nuovo e quindi ci fanno infornare in casa nostra le cose. Mio padre entra mentre faccio delle call con Skype e dice “eh, c’è la zucca” e se io mi incazzo mi dice “ Eh, ma insomma, è un attimo, non puoi metterla nel forno un attimo la zucca, cosa ti costa?”. Mia mamma non alzava neanche la testa, continuava a blaterare cose tutto il giorno. Questo ieri. Io oggi non sono ancora andata giù, anzi non ho intenzione di andarci, però mia sorella poverina che abita con loro, ieri sera era distrutta emotivamente, poverina. Io non so veramente come faremo” (risatina)
I figli ci osservano e ci conoscono fin troppo. Il mio personale commento è che questa amabile storia fa capire perché l’Italia, con tutti i suoi casini e le sue piccinerie e delinquenze, è diventata un grande paese. Perché ci sono queste signore (e signori) che con la schiena dritta, ogni mattina, fanno il loro lavoro, con sacrificio e al meglio che possono, in qualsiasi situazione.
martedì 3 marzo 2020
SCHIENA DRITTA
In questi momenti difficili dove la nostra città sembra abitata da fantasmi e piegata dalla paura è ancora più importante tenere la schiena dritta, restare, lavorare, continuare, vivere. Bellissima oggi Milano sotto la pioggia.
(Massimo Recalcati, post FB 1 marzo 2020)
(Massimo Recalcati, post FB 1 marzo 2020)
lunedì 2 marzo 2020
IN FONDO SONO CONVINTA CHE MI ODI
In fondo, sono convinta che mio marito (un po’) mi odi. Qualche tempo fa mi ha insistentemente convinto ad aderire a una chat di Whatsapp il cui titolo già bastava a farmi rabbrividire: “Emergenza Sanguigna”. La chat raccoglie una buona parte (61 membri) dei circa trecento abitanti della frazione in cui vivo ed ha un generico scopo di controllo del territorio. Nel frattempo si è costituito anche formalmente il “controllo di vicinato”
La chat è silente in periodi e a volte erutta segnalazioni di macchine sospette che si aggirano, di segnalazioni di furti nei dintorni, di condivisione di post di emergenze vecchi anche alcuni anni.
Il tipico scambio è :
A: vista Audi vecchio modello aggirarsi sull’argine e fare foto. Attenzione!
B, C, D, E, F, G: Grazie, grazie per la segnalazione, staremo attenti, ma noi siamo fuori casa... ecc
H: vado a fare un giro a controllare
(Seguono almeno una decina di grazie)
I: devo segnalare al mio amico maresciallo?
L: siamo io e mia moglie con la macchina vecchia che siamo andati a fare le foto al tramonto
M: ah, allora allarme rientrato
Luigi si è tolto dal gruppo dopo pochissimo, dicendoci che lui non è mica matto a stare in un gruppo così. Suo padre ha un po’ insistito ma alla fine ha ceduto, rimanendo convinto che Luigi non sia ancora responsabile come lui auspicherebbe.
Da diverso tempo io lo supplico di lasciarmi cancellare da gruppo, ma lui abbaia che è per la sicurezza, e poi non posso sempre fare la figura della snob. Quindi non mi cancello e non faccio mai commenti.
In fondo, quest’uomo con cui ho diviso la vita penso che mi odi - un po’ almeno.
La chat è silente in periodi e a volte erutta segnalazioni di macchine sospette che si aggirano, di segnalazioni di furti nei dintorni, di condivisione di post di emergenze vecchi anche alcuni anni.
Il tipico scambio è :
A: vista Audi vecchio modello aggirarsi sull’argine e fare foto. Attenzione!
B, C, D, E, F, G: Grazie, grazie per la segnalazione, staremo attenti, ma noi siamo fuori casa... ecc
H: vado a fare un giro a controllare
(Seguono almeno una decina di grazie)
I: devo segnalare al mio amico maresciallo?
L: siamo io e mia moglie con la macchina vecchia che siamo andati a fare le foto al tramonto
M: ah, allora allarme rientrato
Luigi si è tolto dal gruppo dopo pochissimo, dicendoci che lui non è mica matto a stare in un gruppo così. Suo padre ha un po’ insistito ma alla fine ha ceduto, rimanendo convinto che Luigi non sia ancora responsabile come lui auspicherebbe.
Da diverso tempo io lo supplico di lasciarmi cancellare da gruppo, ma lui abbaia che è per la sicurezza, e poi non posso sempre fare la figura della snob. Quindi non mi cancello e non faccio mai commenti.
In fondo, quest’uomo con cui ho diviso la vita penso che mi odi - un po’ almeno.
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