Qualche giorno fa l’Anna ha posto una questione che avevano discusso lei e Andre durante una lunga passeggiata tra i monti (con Olivia nel backpack, naturalmente) “Perché volere un figlio?” posto che gli svantaggi economici, sociali, personali sono lì molto evidenti davanti a tutti (e davanti a loro in particolare, che da sei mesi – quasi sette - non dormono una notte di filato fino al mattino). Perché volere un figlio? Anna ha consegnato la domanda in particolare a me.
Ci ho pensato.
La prima cosa che ho realizzato è stato che l’abituale risposta a questa domanda, basata sui meccanismi naturali, biologici, di riproduzione della specie, non era sufficiente. E qui c’è da fare un distinguo: la domanda non è perché avere un figlio, ma perché VOLERE un figlio. Ci sono forse miliardi di persone che hanno figli, perpetrando il meccanismo di riproduzione vuoi per motivi sociali (ambiente isolato o primitivo o degradato, non accesso ai mezzi di contraccezione), economici (non accesso a mezzi di contraccezione, non accesso all’istruzione), culturali (motivi religiosi, ignoranza, tradizione) ecc. Ho perfino visto con i miei occhi, in Messico, quaranta anni fa, una sottospecie di questa categoria, cioè i figli come garanzia di avere qualcuno che ti mantenga e curi quando sei vecchio, in un sistema sociale dove previdenza e sanità erano un miraggio ancora lontano. Ma nella nostra società, abituata ad addomesticare, confondere, negare totalmente o parzialmente gli istinti naturali (e non solo quello della riproduzione, ma anche altri molto più dannosi come l’aggressività), demograficamente in affanno, deve esserci di più, deve esserci una linea culturale e sociale diversa. Non sparisce credo mai completamente l’istinto naturale, è ovvio, ma bisogna scandagliare di più per arrivare a capire perché VOLERE un figlio e non semplicemente averlo.
Ho guardato un po’ nella psicologia. Ricordavo vagamente di avere studiato a Purdue la teoria dell’attaccamento e sono andata a riguardarla. La teoria è complessa e cercherò di semplificarla al massimo, ovviamente con il rischio di essere altamente imprecisa, ma serve solo come base di ragionamento. L’attaccamento è stato studiato nel rapporto madre-figlio nei primissimi anni (mesi) di età, ipotizzando che il bambino abbia sicurezza e protezione dalle vulnerabilità attraverso la vicinanza con il caregiver. In questo contesto risultano fondamentali la sensibilità e responsività materna che si esplicitano nella percezione accurata dei segnali espliciti e delle comunicazioni implicite del bambino, nella sintonizzazione affettiva e nella condivisione empatica, nella risposta comportamentale, ossia prontezza e appropriatezza della risposta, nella completezza della risposta e soprattutto nella costanza e prevedibilità della risposta. In studi sui bambini che crescono in una situazione di povertà, che ho avuto la fortuna di poter approfondire negli ultimi anni della mia vita lavorativa, ho compreso che la cosa è più complicata del semplice “volere bene” al bambino e viene infatti definita come “dare risposte appropriate e complete ai bisogni materiali, affettivi e relazionali del bambino” e col crescere dell’età coinvolge anche caregiver meno stretti della (abitualmente) madre e condizioni socio-economiche. Per farla breve, un bambino che sviluppa un attaccamento sicuro apprende funzioni fondamentali per il suo sviluppo, in particolare un solido e positivo senso di sé che lo aiuta a regolare e modulare impulsi ed emozioni, a sviluppare autonomia e indipendenza, ad avere credenze positive sui di sé (sono buono, competente, amabile), sui genitori e sulla vita, a creare e mantenere relazioni emotivamente stabili. E siccome le persone spesso ripropongono situazioni già vissute, l’attaccamento nelle sue varie rielaborazioni adulte ha influenza sul volere un figlio. Ma se è vero ed è intuitivamente vero tutto questo, sappiamo che anche adulti con esperienze d’infanzia negative (anche se, attenzione, è la rielaborazione positiva dell’esperienza alla luce del vissuto della persona e non l’esperienza tout court, che può avere elementi contraddittori e negativi) e non rielaborate vogliono dei figli – non tanti ne conosciamo (questa riflessione sull’attaccamento è abbastanza convincente, secondo me), ma alcuni sì.
E allora che fare? Ho pensato di riflettere sulla mia esperienza. A un certo punto ho voluto un figlio, ma perché? Se torno indietro col pensiero associo quel momento all’identificazione di uno spazio. Attenzione! Uno spazio, non un vuoto o una mancanza. Avevo la percezione che la nostra esperienza come coppia, felice, pur nelle difficoltà e asprezze quotidiane che tutti conosciamo, fosse capace di essere feconda, dare frutti, che ci fosse uno spazio a disposizione, che richiedesse coraggio, ma fosse connesso ad un desiderio, ad una gioia, alla volontà di fare una cosa bella, ad uno spazio possibile che si sarebbe riempito ancora di più di senso, senza sprechi. Ovvio che avevo fiducia che fosse così, quindi ci vuole fiducia nel futuro. Non è nemmeno in contraddizione l’osservazione che più volte facciamo di come alcune coppie usino il fare un figlio per salvare il matrimonio. Posso immaginare che sentano, in una coppia che sta scoppiando, quello spazio come un vuoto che cerchino di colmare (sbagliando) con la gioia di un figlio (che quindi è la ricerca di una gioia). Lo diceva Leopardi, in uno dei pensieri che chiudono lo Zibaldone “Uno dei maggiori frutti che mi propongo e spero dai miei versi è contemplare le bellezze e i pregi di un figliuolo, non con altra soddisfazione che di aver fatta una cosa bella al mondo, sia essa o non sia conosciuta per tale da altri”.
Insomma, non so dare risposta, la domanda è troppo difficile, come le domande fondamentali dell’uomo non ha un’unica risposta ma tanti pezzi di risposta più o meno validi e sensati che si intrecciano in un animo umano troppo complesso e variegato per essere totalmente analizzato. Se dovessi rispondere al quesito posto da Anna e Andre forse risponderei alla fine in modo molto meno intelligente ed elaborato. Si vuole un figlio per baciarlo mentre si sta addormentando, odorare il suo buon odore, vederlo crescere ogni giorno e pensare a quanto è bello e quanto lo sarà ancora, ogni giorno della sua vita, per te e per l’altro genitore – e per il mondo.
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