martedì 31 maggio 2022

I BAMBINI CHE SI PERDONO NEL BOSCO

 "Quando un bambino va a scuola, è come se fosse portato nel bosco, lontano da casa. Ci sono bambini che si riempiono le tasche di sassolini bianchi, e li buttano per terra, in modo da saper trovare la strada di casa anche di notte, alla luce della luna. Ma ci sono bambini che non riescono a fare provvista di sassolini e lasciano delle briciole di pane secco come traccia per tornare a casa. E’ una traccia molto fragile e bastano le formiche a cancellarla: i bambini si perdono nel bosco e non sanno più tornare a casa.

La scuola è come un bosco in cui alcuni sanno ritrovare la propria strada, sanno leggerla e sanno orientarsi: passano la giornata nel bosco e si divertono a scoprirlo, a conoscerlo nelle sue bestiole e nei suoi alberi e riescono a collegare tutto questo alla traccia e alla memoria che li riporta a casa. Sono padroni di un territorio perché sono padroni dei segni per riconoscerlo e per collegarlo; e la loro casa non è un posto remoto e divenuto inaccessibile, ma è una possibilità e quindi una presenza da cui ci si può allontanare sicuri di ritornare.

Altri bambini passano la giornata nel bosco e anche loro imparano tante cose: conoscono alberi e piante, animali e insetti, ma alla fine della giornata conoscono anche la paura di non sapersi orientare, di non sapere la strada di casa. Hanno imparato tanto, forse, e l’hanno dimenticato perché non riescono a collegarlo alla traccia ed alla memoria della strada di casa: il bosco diventa il posto pauroso in cui si perdono, senza riconoscere le proprie tracce, sempre estranei e sempre respinti.

I bambini che sanno tornare a casa sono capaci anche di andare avanti nel bosco ed oltre il bosco.

I bambini che si sono persi non sanno tornare a casa e non sanno neppure andare avanti, perché ogni passo che fanno è sempre per perdersi un po’ di più, per non saper riconoscere niente di sé e delle cose che stanno loro attorno: se si incontrano tra loro non si riconoscono e non sanno neppure diventare compagni di strada.

Non hanno strada, perché non sanno leggere i segni che possono costituire una strada o un sentiero: sono condannati a vagabondare senza spazio e senza tempo, e possono preferire di venire rinchiusi in una gabbia."


Di Andrea Canevaro da  I bambini che si perdono nel bosco, Firenze, La Nuova Italia, 1976

lunedì 30 maggio 2022

SE FOSSI IN UCRAINA

 E così, dal fondo della notte d’estate, mi viene da pensare… non riesco a smettere di pensare a cosa farei se fossi in Ucraina, sotto l’aggressione russa. Trovo naturale chiedermelo, penso che la maggior parte di noi almeno una volta ci abbia pensato, ma non  è facile. Innanzi tutto, bisogna differenziare: essere a Mariupol o a Kiev non è la stessa cosa. Vivere nella paura o vivere nella paura e nei sotterranei e sotto le bombe non è la stessa cosa. Essere stati testimoni di eventi traumatici o averli sentiti raccontare non è la stessa cosa.

Allora ipotizzo di essere a Kiev in una casa normale. Qual è la prima cosa che farei? Di quella sono abbastanza certa: la prima cosa che farei è infrangere ogni codice morale supplicando i miei figli di stare dove sono, a Parigi, a Zurigo, al sicuro, di non pensarci nemmeno di tornare.

Fatto questo, però, la domanda è: io me ne andrei? Qui sono meno sicura della risposta, ma credo che non me ne andrei. Ho ancora un pezzo di vita davanti, ma posso rischiare questo pezzo perché la maggior parte della mia vita si è svolta ed è stata una buona vita, con i suoi frutti. L’altro motivo è che Roberto non se ne andrebbe mai, rimarrebbe lí a difendere la sua casa, il suo paese, la sua città, la sua nazione, per rabbia prima ancora che per nobili sentimenti, imparerebbe a sparare e a sputare il suo dolore sugli aggressori. Un altro motivo è che sono troppo vecchia ormai per ricominciare a costruirmi una vita altrove, mendicando uno spazio che non ho cercato e voluto. Un altro motivo è che potrei essere utile. Non credo potrei sparare se non proprio per difendere la mia vita e in fondo sono solo una vecchietta, ma so fare cose e oltre allo sparare in guerra ci sono molte altre cose da fare. So cucinare, so organizzare sistemi anche complessi, so guidare, so usare i mezzi di comunicazione, so insegnare e stare con i bambini. Tutte cose utili in guerra e che farei, sorretta dalla paura ma più ancora dalla rabbia, per tutte le ore di veglia  senza battere ciglio.

E così, dal fondo di questa notte, mi immagino a fare una cosa che immagino mi abbiano  insegnato a fare, pericolosa, ma estremamente utile: individuare mine e sminare  - me lo immagino come una cosa da fare con manualità, attenzione e cura, qualità che possiedo. Avrei paura, tanta paura, ma qualcosa bisogna pur fare ed è probabilmente l’attività bellica più contigua al pacifismo che posso immaginare.

Rido di me stessa per questi pensieri non comici, ma ridicoli, sono proprio una vecchia scema. Mi affaccio alla finestra e aspiro il profumo della notte e penso alla mia grande fortuna…

LA GOCCIA

 Un piccolo episodio curioso. L’altro giorno di mattina presto Roberto esce per la sua corsa mattutina di un paio di volte a settimana. Esce in pantaloncini e canottiera per correre la sua decina di chilometri sull’argine e i vari sentieri della golena. Bisogna premettere che Roberto è affetto da Ranierite più o meno acuta a seconda dei periodi. Cos’è la Ranierite? Una malattia non grave che però impedisce quello che si chiama percorso netto, cioè di uscire di casa in una volta sola. Quando esce di casa almeno un rientro è necessario per prendere qualcosa di dimenticato (il telefono, il portafoglio, la borsa, il maglione, le chiavi della macchina… tutto va bene tranne la testa perché quella è attaccata al corpo). A volte i rientri sono più d’uno.

Ma torniamo all’altra mattina, dicevamo che Roberto esce di casa in pantaloncini e canottiera, chiude la porta con la chiave che poi posa un po’ nascosta da un mucchietto di pezzetti di legno che c’è nel cortile (il nascondiglio varia a seconda della configurazione variabile del cortile) per riprenderla al ritorno per aprire la porta e entrare in casa.  Poi mangia qualche ciliegia dall’albero e fa per partire, ma si rende conto di avere dimenticato il telefono che porta sempre con sè per fare foto e anche perché l’età avanza e i percorsi sono poco battuti, non si sa mai. Quindi riprende le chiavi, infila la chiave nella serratura ma la chiave non gira e non riesce neanche ad estrarla. Attimo di panico, avrà sbagliato chiave? Ma la chiave di porta blindata è inconfondibile nel mazzo ed è la chiave giusta. Poi, ne sono certa anche se nel suo racconto non appare (tutta questa storia è da lui riportata, ovviamente) comincia ad imprecare violentemente prendendosela con il cielo e i suoi abitanti poi giù giù fino all’umile chiave, tira e ritira, riesce a farla girare e alla fine ad estrarla. Esaminandola, si rende conto che la chiave, solo quella chiave del mazzo, è impiastricciata di resina. La pulisce con l’alcool e si rende conto andando a vedere che in quei pochi minuti in cui la chiave è stata vicino ai pezzi di legno una goccia di resina dal legno è colata esattamente sulla chiave sporcandola.  Una coincidenza quasi incredibile.

Questa storiella è dedicata a tutti quelli “che tanto non cambia mai niente” - a volte una goccia invece può cambiare un racconto…

mercoledì 18 maggio 2022

ASCOLTANDO LETTA


Lunedí scorso, nell’ambito della campagna elettorale per l’elezione del nuovo Sindaco di Parma (il prossimo 12 giugno) sono andata ad ascoltare Letta presso la Clubhouse dell’Amatori Rugby Parma. Poco più di un centinaio di persone ad ascoltare una mezz’oretta di conversazione, niente di impegnativo, nè formale nè “da comizio”. Di fianco a Letta il candidato Sindaco Michele Guerra, un giovane signore che ha evidentemente letto molti buoni libri, docente universitario ed (ancora in carica) Assessore alla Cultura dell’Amministrazione Pizzarotti, scelto tramite un faticoso accordo tra il PD e Effetto Parma, la lista di Pizzarotti (che notoriamente non ha più a che vedere da molto tempo con i 5 Stelle). 

Il rito è stato celebrato con tutti i suoi passaggi e scansioni: breve benvenuto del Segretario Comunale, poi del Segretario Provinciale, poi del Segretario Regionale, tutti felici e tutti onorati, tutti uomini, tutti quarantenni, con jeans, camicia bianca o azzurrina senza cravatta e giacca blu. Poi il candidato sindaco, anche lui con le stesse caratteristiche antropologiche.

Poi ha parlato Letta e il mio cuore vecchio e piuttosto diffidente si è aperto al piacere di ascoltare qualcuno che non solo parla con vocabolario più che adeguato, ma che cerca, nei limiti di un possibile dato dalle circostanze, di mantenere il discorso su temi alti, generali, su analisi ovviamente semplificate, ma non piacione, su una complessità edulcorata, ma sempre posta in evidenza. Ha parlato di guerra e armi, ma soprattutto di Europa e democrazia, di uno sforzo possibile su lavoro e salari. Mi è piaciuto, mi ha convinto con quella convinzione laica che non è richiamo all’”appartenenza”, tratto che più mi sconcertava e allontanava dal PCI, ma tentativi, come lui stesso ha detto, di costruire significati e analisi e soluzioni che solo un partito può garantire, che nessun leader, per quanto bravissimo, può da solo creare.

Ad un certo punto, mi è venuto in mente un pensiero che mi ha fatto sorridere. Ho pensato “Ecco, il professore di Sciences Po”, nel momento in cui ha citato Prodi e la famosa “tessitura fine” di Prodi come riferimenti per il futuro prossimo. Come si dice: costruire la cornice, fissare i riferimenti.

Note stonate che non mi hanno rovinato la serata, ma quasi. Solo due. La prima riguardava il riconoscere continuo di personaggi che hanno in questi venticinque anni minato qualsiasi possibilità dei DS, PDS e PD che si sono susseguiti di vincere le elezioni amministrative coi loro personalismi, le loro liti, le loro divisioni. E sono (quasi) tutti ancora lí. Davanti a me, in vestito rosso fiammante, una delle protagoniste della presentazione di tre liste di sinistra (la cui somma era ampiamente al di sopra del 50% nel risultato finale) nel mio paesino di origine nel Parmense, con il risultato di consegnare l’amministrazione del mio paese (sempre stato di sinistra) a un sindaco della Lega. E, insieme a molti altri, era ancora lí in prima fila, invece che a casa a cena. Un lieve senso di nausea ha accompagnato tutta la mia serata.

La seconda nota stonata mi ha fatto veramente arrabbiare, invece. Non c’era un palco, ma solo alcune sedie, su cui peraltro non si sono mai seduti, per Letta e i suoi accompagnatori, girate verso il pubblico. Ecco, appunto, chi c’era in queste sedie? Fa già arrabbiare che il Segretario generale, quello Regionale, quello Provinciale, quello Comunale e il candidato Sindaco fossero tutti uomini, 5 uomini a rappresentare un pubblico (e dei votanti) almeno per il 50% femminili. Ma a questa ferita siamo ormai non dico assuefatte, ma preparate, pronte a subirla. Quello che mi ha fatto più arrabbiare, però, è che tra i “relatori” hanno infilato anche una donna del Parmense Assessore regionale alla Montagna e -ovviamente - alle Pari Opportunità e una ragazza giovane che non conosco e di cui nessuno ha presentato il ruolo. Nessuna delle due ha parlato, ma erano evidentemente là per assicurare la “rappresentanza di genere” in quella accezione di facciata dietro cui nascondersi che è tipica della gran part dei contesti e anche del PD. Sarebbe stato di gran lunga meno ipocrita e penoso (e mi avrebbe fatto arrabbiare meno) se non ci fossero state.

Long way to go….

mercoledì 11 maggio 2022

PERIODO DI SCELTE AGLI ANTIPODI

 Sulla differenza fra astenersi dall'armare l'aggredito e disarmarlo

(Post di Adriano Sofri, FB, 11 maggio 2022)

Discriminante com’era stata a ridosso dell’invasione dell’Ucraina, la questione della fornitura di armi alla difesa di quel paese era diventata via via più oziosa, nella parte in cui riguardava l’intenzione personale di ciascuno. Ciascuno di noi infatti si era chiesto se avrebbe contribuito ad armare la resistenza ucraina all’aggressione, nessuno di noi aveva la più piccola fionda, la più fievole cerbottana, da trasmettere a quei combattenti. Trasferita sul piano dei governi, e ratificata la prima risposta – sì, l’Italia avrebbe partecipato come gli altri paesi europei e dell’alleanza militare di cui fa parte – è presto diventata una pretestuosa logomachia di armamenti difensivi o offensivi, carezzevoli o letali, e un varco golosamente occupato da capipartito ingordi di consensi, sulla falsariga sperimentata contro la tirannide dei vaccini. La disputa sul governo e le armi è priva di qualunque pregio morale, a differenza di quella sulla scelta personale, che per qualcuno è scelta fra accettazione necessitata della violenza e nonviolenza, per altri fedeltà alla legittima difesa, senza la quale è il diritto a scomparire. La nonviolenza – cui il chiacchiericcio corrente sostituisce il nome espropriato di pace – può essere una scelta radicale, che non ammetta per sé nemmeno l’eccezione della legittima difesa, nemmeno il soccorso legittimo all’inerme sopraffatto. Una simile scelta, che è a suo modo religiosa anche quando non abbia un’ispirazione positivamente religiosa, è, temo, molto ma molto meno diffusa, sincera e vincolante di quanto non si deduca dalle pubbliche dichiarazioni. E molto ma molto meno coerente (per fortuna): nelle sue varianti di sinistra, quanto si traduce in una dissociazione dall’attività delle donne combattenti yazide di Shingal, curde del Rojava, per fare una prova? 

Ci sono dati di fatto incontrovertibili. Uno è che non si poteva essere per il negoziato senza essere per la difesa armata degli ucraini, e si doveva sostenerne la difesa armata per consentire il negoziato. La premessa era che gli ucraini si difendevano, oltre ogni previsione non di noi, passanti senza conoscenza, ma dei loro tutori più, letteralmente, agguerriti, compreso il Pentagono, che aveva accordato loro una resistenza attorno alle 72 ore, come nel calcolo più prudente dei consiglieri di Vladimir Putin. La resa avrebbe ipso facto tolto di mezzo il negoziato: la resa non si negozia, si firma, come quando col ginocchio premuto sul collo si batte con una mano sul tappeto per implorare: Basta. La resa è stata il programma sentito ed effimero di molti dicitori della pace, e subito dopo, quando si è fatta evidente la strenuità della resistenza (malvista da lontano come un eccesso doloso di legittima difesa) le si è sostituito l’auspicio della sconfitta. Che cosa vuol dire se non questo la deplorazione dell’invio di troppe armi e troppo efficaci o sofisticate? Sono tante le possibili sincere, disinteressate, appassionate ragioni degli assolutisti della pace predicata, ma è un fatto che si è svolta una campagna vasta di educazione alla viltà, che ha recuperato malamente l’armamentario retorico del sacro egoismo nazionale, dello scongiuro dell’eventualità che la risacca della guerra nel cuore d’Europa venisse a lambire le nostre rive. (Era il vero brutto connotato del primo documento dell’Anpi, poi variamente corretto). 

Man mano che la guerra procedeva e gli eventi sul campo modificavano il paesaggio delle possibilità, è affiorata nella dirigenza ucraina e in quella dei grandi alleati, gli angloamericani soprattutto ma anche numerosi esponenti dell’Unione Europea e dei singoli Stati, la tentazione di rivendicare la “vittoria” ucraina. Si passava così la linea che fissava la più auspicabile, e delicata, regolazione di un conflitto così cruento e sempre sul punto di esorbitare dai suoi confini territoriali e diplomatici, in una specie di pareggio: l’Ucraina che vince solo perché non perde, la Russia di Putin che perde solo perché non vince. E’ questo, in sostanza, il senso di una frase come quella enunciata da Macron sull’attenzione a non umiliare la Russia. (Con un eccesso di ottimismo, anche: perché la dose di distruttività pura che Putin è in grado di scatenare ancora è pressoché sconfinata, e ha oltretutto il nome fatale di Odessa). 

Come che sia, bisogna reciprocamente concedersi il beneficio della sincerità. Io non saprei e non vorrei opporre alcuna obiezione a chi, accanto a me, mentre passo la mia cerbottana al soldato ucraino, ribadisse di non poterlo fare, e magari intanto si distinguesse per il soccorso offerto al soldato ferito. (Perfino in un’attività elementare come quella di fare l’elemosina per strada mi sono rassegnato a non diffidare sempre di chi ne teorizza il danno). Ma una frontiera decisiva separa la rinuncia ad armare chi si sta battendo ed è attaccato e più debole e chiede aiuto, dall’impegno attivo a impedire che quell’aiuto venga fornito da altri. Da chi voglia togliermi di mano la cerbottana. Da chi dichiari di non poter armare nemmeno l’aggredito, e si impegni a disarmarlo.

E poiché per oggi sono già stato troppo lungo, finisco con un esempio amarissimo, tanto più per chi, come me, sente ancora la magia delle memorie del valore. Sono successi in Italia, all’aeroporto pisano, al porto di Genova, forse anche altrove, episodi che si sono illusi di ravvivare quella magica memoria di solidarietà internazionalista del lavoro. Operai che si sono rifiutati di caricare materiale militare destinato all’Ucraina, secondo la deliberazione del parlamento. Un boicottaggio attivo e ribelle dell’appoggio a quella difesa. Sono stati salutati, quei gesti, come una fedeltà al valore antico. Nell’adunanza romana sulla cosiddetta “Pace proibita” sono stati applauditi, e hanno ricevuto gli applausi con la coscienza, immagino, di un bel dovere compiuto. Negli stessi giorni, si è saputo che una cosa apparentemente simile era avvenuta in Bielorussia. Là ferrovieri e lavoratori di apparati logistici avevano sistematicamente sabotato i collegamenti ferroviari destinati al rifornimento delle truppe russe oltre confine, e in particolare la famigerata colonna di 70  km di mezzi militari alla volta di Kyiv. Per queste tipiche azioni partigiane clandestine – incendi di centraline, manomissioni di scambi ridotti alle operazioni manuali... – decine di lavoratori sono stati arrestati per tradimento, spionaggio, terrorismo... Azioni apparentemente simili, ho scritto. Non ho bisogno di spiegare perché sono agli antipodi.

martedì 10 maggio 2022

ITALIANO CON RADICI

(Paolo Nori, post Facebook del 9 maggio 2022)

e mi ero accorto che felicità, in dialetto parmigiano, non esisteva.

I parmigiani, la felicità, non sapevan neanche cos’era, non sapevano neanche dove stava di casa, non sapevano neanche com’era pitturata; non c’era, in parmigiano, un parola per dire felicità, non si diceva, in parmigiano, sono stato felice, si diceva «A ston stè ben», son stato bene.

Così come non c’era, in dialetto parmigiano, un’espressione per dire «Ti amo»; si diceva «At voj ben», ti voglio bene; e io, per quello, non ho mai detto a nessun «Ti amo», nella mia vita, e se lo dicessi ho l’impressione che mi crollerebbe la faccia, che dovrei poi raccogliere i pezzettini della mia faccia sparsi per tutta la stanza.

A mor, in dialetto parmigiano, non significa Amore, significa Io muoio. Che è una cosa diversa.

Cioè io, a pensarci, la mia lingua, il pozzo delle mie emozioni, io l’ho scavato a Parma, e quando devo lavorare con loro, con le mie emozioni, devo usare le parole che ho sepolto a Parma, devo tornare a Parma e buttare giù il secchio in quel pozzo lì che ho scavato a Parma non posso fare altrimenti.

E la lingua che uso, sia quando parlo che quando scrivo, è italiano, ma è un italiano che ha le sue radici nella lingua dei miei nonni, che avevano fatto la terza elementare e che parlavano un italiano che a me sembra meraviglioso.

Quando ho cominciato a scrivere, nel 1996, 16 settembre, il giorno dopo la morte di mia nonna Carmela, io mi ricordo che ho preso l’impegno, con me stesso, di scrivere cose che potesse capire mia nonna Carmela, e la felicità, mia nonna Carmela, non sapeva cos’era, ma non perché era infelice, perché era di Parma.


Ecco, così, non ci avevo mai pensato,  ma sembra vero

sabato 7 maggio 2022

EMERGENZA SANGUIGNA?

 Abbiamo come immagino molte piccole comunità locali una chat Whatsapp che raccoglie gli abitanti della nostra frazione (tutti? Non credo, ma tanti), pomposamente chiamata Emergenza Sanguigna. In genere è usata per gli auguri, i gatti che non tornano a casa e macchine “sospette” avvistate. Ne ho già parlato in un altro post come segnale del fatto che Roberto in fondo mi odia. 

Stasera però è successa una cosa davvero buffa. Riporto integralmente




Solo a Sanguigna….




martedì 3 maggio 2022

UNA PESSIMA SERATA

 Che brutta serata ieri! Cominciata con la rabbia schiumante di vedere un sondaggio svg di Mentana in base al quale sembra che un italiano su 4 (19+6%) pensi che la colpa della guerra sia di Biden o degli ucraini (!). Proseguita pessimamente con Otto e mezzo della Gruber in cui un parterre comprendente la Gruber stessa, l’onnipresente (e non si capisce perché) Lucio Caracciolo, il magnifico storico dell’arte (in altre materie faziosissimo) Tomaso Montanari, il bravo (e primo della classe) Giovanni Floris, non è riuscito a sviluppare un pensiero sulla differenza tra un’intervista e un comizio, parlando dell’intervento del ministro Lavrov con lo spazio televisivo gentilmente offerto da Retequattro. (A dire tutta la verità, dei presenti, in coro concordi che le interviste devono essere fatte a tutti, solo Floris, citando una famosa intervista della Fallaci a Gheddafi, in cui la Fallaci stessa ha ridicolizzato le fanfaronate di Gheddafi, e ricordando l’intervista di David Frost che ha praticamente costretto Nixon alle dimissioni sul Watergate, ha implicitamente, e per i pochi eletti che l’hanno capito, affrontato il tema della differenza tra una vera intervista e uno spazio di comizio, ma ribadendo che “non si critica il lavoro dei colleghi”- pensa un po’… e il grido sulla censura effettuata da Letta ha raccolto il consenso - e lo scandalo - solo di Montanari e Caracciolo, che hanno censurato il commento di Letta in base alla rivendicazione della libertà di espressione - a pensarci, il teatro dell’assurdo).

E ahimè, altro colpo alla mia serata è stato il commento di Draghi alla conferenza stampa con i suoi ministri quando si è scusato ”perché erano tutti maschi” come se fosse una questione di etichetta e di impostazione formale e non del fatto che il SUO Consiglio dei Ministri ha solo 8 ministre donne ed evidentemente non nei Ministeri chiave. Un altro colpo al cuore. Una pessima serata.