Un paio di settimane fa sono andata al cinema a vedere Tre manifesti ad Ebbing, Missouri e il film mi è davvero piaciuto nella sua crudezza tutta America non-mainstream, nel suo essere proprio middle of nowhere, lontana dalla retorica e dalla finta bellezza, a raccontare un dolore basico, poco rielaborato, insopportabile.
Questa settimana, però, complice una stupida ed impegnativa influenza, a casa accanto alla stufa ad aspettare che passasse, ho preso in mano il librone di Fernando Aramburu, Patria, e me lo sono letto nel silenzio, starnutendo e tossendo. Il libro racconta una miriade di storie che si intrecciano attorno a un villaggio dei Paesi Baschi nella stagione terribile del terrorismo ETA, con protagonisti un folle fanatismo nazionalista e un evidente sadismo del potere repressivo e sanguinario - e il conformismo vigliacco della brava gente comune schiacciata tra i due.
Ma oltre queste evidenti tematiche, il libro di Aramburu si concentra sulle relazioni affettive e amicali fra i tanti personaggi che ruotano intorno alla storia, due famiglie, un paese e una nazione intera. C’è tanto nel libro, ma mi ha colpito particolarmente un aspetto, anche perchè l’ho legato al film: l’analisi della condizione di vittima. Innanzi tutto, le vittime subiscono ancora violenza dopo il fatto, sono messe contro un muro, messe in scena, evitate, negate. Questo succede nel libro e anche nel film: le vittime danno fastidio, ricordano brutti fatti e brutti tempi e la vergogna che ci è rimasta appiccicata.
Ma la tematica a mio avviso più interessante e sorprendente è che il confine tra vittima e carnefice è fragile e muta nel tempo, si sgretola in vittime che diventano carnefici di stessi e degli altri, in carnefici che si scopre sono anch’essi vittime e solo in questo rito di passaggio riesce a ripartire la vita. Con il perdono: perdonare i carnefici (forse, dice il film), richiedere il perdono (solo quando, secondo il libro, si riconosce la propria condizione di vittima) e il perdono più difficile, il perdonare se stessi per aver fatto e non aver fatto, per aver detto e non aver detto e soprattutto per essere sopravvissuti all’insopportabile e concedersi ancora di vivere ed essere felici.
Con la testa ingombra dai virus dell’influenza, ho tratto conforto da questo pensiero.
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