In un suo recente post Mario Calabresi parlava della sua fascinazione giovanile per l'America. Ne ricopio solo un pezzetto
"Per molto tempo l’America è stato il Paese dei miei sogni, quello dove avrei voluto studiare, viaggiare, vivere. Immaginavo soprattutto New York, l’avevo conosciuta nei film di Woody Allen, in una pellicola che fece il pieno di Oscar come Kramer contro Kramer, con la battaglia drammatica tra Dustin Hoffman e Meryl Streep per avere la custodia del figlio dopo la separazione, negli articoli di giornale, soprattutto in quelli di Gianni Riotta sul Corriere della Sera e in tanti libri. A darmi la sensazione più forte che quella era la città dove volevo vivere, dove volevo perdermi, erano stati una serie di racconti raccolti nel volume “La città profonda” scritto da Furio Colombo e illustrato da Tullio Pericoli. Era uscito quando avevo compiuto 18 anni e mi aveva fatto vivere le storie sotterranee di Manhattan, tra i cunicoli della metropolitana dove vivevano colonie di homeless, mi aveva fatto camminare nelle avenue paragonate a lunghissimi e profondi canyon, mi aveva spiegato il mito dei grattacieli e il declino la rinascita della più bella delle stazioni, Grand Central Station.
Poco dopo avevo incontrato un libro che si chiama “Strade Blu” (è un bel caso di sintonia se la collana con cui escono i miei libri da Mondadori si chiami proprio così) scritto da William Least Heat-Moon, un insegnante di inglese che dopo aver perso il lavoro ed essersi separato dalla moglie aveva deciso di partire per un lungo viaggio nell’America profonda con un furgone scassato, trasformato per l’occasione nella sua casa. Come compagna di viaggio si era portato “Foglie d’erba”, la più bella raccolta di poesie di Walt Whitman. Le “strade blu” erano le rotte minori e secondarie dell’America rurale, dove Least Heat-Moon aveva raccolto storie minori ma affascinanti e mai deludenti. La colonna sonora di questa America che immaginavo, ma non avevo mai visto, era la musica di Bruce Springsteen, soprattutto quella dell’album “The River”.
Così grazie al cinema, ai libri, alle canzoni e agli articoli di giornale che ritagliavo e conservavo, si era costruito il mio immaginario. Quello di un Paese pieno di storie, di fatica, di avventure e di spazi immensi, una società che sogna, resiste, rinasce e va sempre avanti, una nazione che include chi arriva e trasforma gli immigrati in cittadini.Nell’estate dei miei 21 anni, dopo aver risparmiato facendo l’edicolante e il tabaccaio, lo spalatore di neve e il sondaggista, sono partito per il mio primo corso d’inglese, all’università di San Diego. Quando si è aperta la porta degli Stati Uniti ho trovato la luce della California e il Pacifico: un battesimo che andava al di là di ogni mia aspettativa.
Poi ci sono stati il Grand Canyon, il deserto e infine New York. Non dimenticherò mai l’emozione che ho provato alla vista dello skyline mentre con il taxi arrivavo a Manhattan. Il sole stava tramontando e quelle luci sui ponti e grattacieli mi erano assolutamente familiari: talmente tanto l’avevo vista e immaginata che mi sembrava di essere a casa. Ci sarei tornato d’inverno, scoprendo la meraviglia di una gigantesca nevicata che paralizzò la città e la rese incredibilmente silenziosa."
Ho mandato il post (c'era molto altro, era un post sulle incombenti elezioni americane, in realtà) a un vecchio amico (mi infastidisce leggermente questa cosa che davanti ad amico o ad amica metto sempre l'aggettivo "vecchio", ma tant'è) che mi ha risposto:
"Curioso. NY è stata una folgorazione anche per me (e anche la California) ma non c'è una cosa (eccetto Allen) che sia nelle mie suggestioni. Il mio pantheon è quasi tutto nero brillante, le mie letture e i miei sogni americani sono altri. Curioso che ognuno abbia la propria America (Lui, onestamente, se posso, mi pare un filo più scontato)".
Questo scambio mi ha dato da pensare: come è la mia America (io la chiamo Stati Uniti, se dovessi parlare dell’America dovrei includere l’amata America latina)?
Mi ricordo che la prima, immediata e potente fascinazione l’ho avuta al mio primo viaggio negli States, un indimenticabile coast to coast fatto con Roberto nel 1987. Gli Stati Uniti non erano per me prima del viaggio un pantheon, anzi, erano il Paese del Vietnam e dello spietato golpe cileno. Mi attirava New York, mi sembrava un paese di meraviglie naturali, ma il famoso “mito” americano si scioglieva in una società senza storia e senza radicamento, quella storia di provincia, di mentalità ristretta e di Coca Cola ed hamburger che mi dava un leggero senso di nausea (quella sensazione negli anni non è mai cambiata, ancora adesso quando vedo Trump strafogarsi di quel cibo così very American mi ritorna al naso l’odore nauseabondo emanato dai MacDonald, un misto di carne bruciacchiata e fritto, e il mio leggero senso di nausea).
Ritornando al nostro viaggio, detto in sintesi, mi sono innamorata dei cieli americani, alti, ampi, proiettati verso l’infinito. Gli spazi, il vuoto, ma soprattutto quei cieli…
Ho poi goduto immensamente New York, città con le sue difficoltà e durezze, totalmente assurda e monumento della follia a cui può arrivare il genere umano, ma con una caratteristica inimitabile: chiunque può trovare a New York quello che ama di più: arte, storia e storie, cibo, musica, luoghi iconici dei nostri tempi (recentemente anche memorie), skyline, perfino natura (Central Park non è per niente un parco cittadino, domato e antropizzato).
Poi, diversi anni dopo, sono andata ad abitare (con una figlia piccola) in Indiana, West Lafayette, Purdue University. Anche lì, ogni mattina, con il mio caffè in mano, mi riconnettevo ogni giorno con quel cielo e con quella certezza di essere al sicuro, che nessuno mi avrebbe minacciato, sopraffatto, umiliato ma che la convivenza sarebbe stata pacifica, accogliente, competitiva solo se si fosse accettata la competizione. E sono stata felice, per qualche anno, ho imparato un sacco di cose e ho vissuto con semplicità e facilità. Sarò per sempre grata agli States per questo.
Oggi stiamo aspettando l’esito di un’elezione sulla quale ho letto montagne di articoli per arginare il senso di irrealtà ed impossibilità che la circonda. La mente non accetta che un “maiale” (così l’ha efficacemente e sinteticamente descritto la mia amica Maria) sarà votato da milioni di persone ignoranti, manipolate e arrabbiate. Irragionevolmente, in me alberga ancora la speranza di ritrovare la sensazione di quelle mattine americane - deve esserci ancora, rintanata in qualche angolo, a dare ancora speranza a un paese martoriato dalle divisioni create ad arte (veramente il culmine lo raggiunge il tema immigrazione in un paese fatto interamente da IMMIGRATI ! Unbelievable) e dalla rabbia e dal rancore cavalcati e fomentati da maschi guerrafondai e fascisti.
Good luck, America!
(Chissà se anche la mia “America “ è un filino più scontata”…)
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