Oggi per fortuna è il 3 agosto e mi sono allontanata dall’inquieto sentimento che mi agita ogni 2 agosto (da 43 anni!). Ci ho pensato a lungo, per tanti anni, ho cambiato spesso idea, ma sono giunta alla conclusione (momentanea? Chissà…) di chiamarlo “buco nel cuore”. Mi sembra la dicitura giusta perchè “buco” dà l’idea di un dolore in cui si cade senza mai uscirne, di una mancanza, di uno strappo. Il mio buco nel cuore si riapre ogni due agosto.
C’è da spiegare? Sì, c’è - e parlandone chiudere a poco a poco il buco fino all’anno prossimo, fino al prossimo due agosto.
Il 2 agosto 1990 avevo compiuto 22 anni da pochi giorni e studiavo Scienze Politiche a Bologna. Facevo la pendolare da Parma pressochè ogni giorno durante l’anno accademico e poi per dare gli esami, per vedere amici… amavo Bologna, era la città che aveva accolto i miei vent’anni e la mia appassionata voglia di imparare, di sapere, di conoscere. Amavo Bologna (la amo tuttora) e frequentavo ogni giorno la Stazione di Bologna. Quel giorno specifico però non ero a Bologna bensì di ritorno da una vacanza in Jugoslavia (ancora adesso mi scappa detto Jugoslavia e subisco la giusta ilarità dei miei figli per i quali il termine è inesistente) a zonzo in tenda canadese per un paio di settimane con Roberto e altri tre fidatissimi e affiatatissimi amici, la mitica R4 bianca e la 127. Eravamo giovani, felici, abbronzati, con gli occhi e il cuore pieni delle meraviglie che il mondo cominciava a mostrarci. Verso metà giornata siamo arrivati a Trieste, con il programma di visitarla e poi ripartire a sera inoltrata verso casa.
Abbiamo subito percepito un’atmosfera strana nell’aria, le persone erano poche e tese, nonostante la magnificenza del luogo, ma non c’erano ancora gli smartphone, non c’era Internet, e abbiamo capito solo quando siamo andati a mangiare al ristorante: la gente era assembrata intorno al televisore che mostrava continuamente quello che era successo, bomba, morti, scempio. Non ci siamo sottratti all’onda di orrore che ci veniva sbattuta addosso, con tutti quelli intorno a noi accomunati dagli stessi pensieri, dalle stesse sensazioni. E siamo andati avanti a vivere.
Il ricordo piuttosto limpido che ho sono le lacrime del Presidente Pertini, grande uomo - le ho trovate consolatorie, perché indicavano un dolore condiviso, un peso portato da molte spalle.
Il buco si è aperto a poco a poco, nei giorni seguenti, nei mesi seguenti, negli anni seguenti, con tutto il suo corollario di indignazione e sgomento man mano che se ne scoprivano continuamente aspetti di ulteriore orrore, con una verità che arrancava, che si faceva largo con immane fatica, tuttora posta in dubbio da quelli che da anni buttano fumo e merda nel frullatore mediatico. Il mio piccolo buco nel mio piccolo cuore, però, è racchiuso in due cose. La prima è la violazione, lo scempio di un mio luogo amato, intimo, personale e come tale indimenticabile e imperdonabile. Uno scempio che nessuna giustizia potrá mai riparare. Fa ancora più male quest’anno, dal momento che i nipotini degli assassini senza pietà sono al governo e la gente li ha votati, con leggerezza, senza memoria. E quello che fa ancora più male è che gli assassini hanno avuto figli e nipoti e le 85 vittime non hanno potuto - nessuna giustizia potrà mai riparare questo semplice fatto. E tutto questo sangue, tutto questo dolore, non sono stati utili nemmeno ad evitare il ritorno del fascismo.
La seconda cosa è un pensiero semplice, limpido. AVREI POTUTO ESSERE IO una delle vittime, io che c’ero spesso, su e giù dai treni. E la mia vita sarebbe stata spezzata, non avrei conosciuto molte delle cose per cui vale la pena vivere, l’amore, l’amicizia, l’avventura, la sensazione incomparabile di tenere nella tua mano salda la manina di un bimbo e camminare insieme sicuri con lui o lei (ho avuto la fortuna sia di un lui che di una lei) - andare avanti, nelle molte direzioni in cui mi ha portato, ci ha portato, la vita. Non sono mai riuscita ad accantonare questo pensiero, men che mai ora, quarantatre anni di vita vissuta dopo. Nessuna giustizia e nessuna riparazione, nemmeno per questo.
Negli anni, sono tornata spesso a Bologna e in stazione e appena potevo andavo dallo squarcio che é stato mantenuto, facendomi ogni volta un punto d’onore di leggere i nomi di tutte le vittime. Ho letto anche le loro storie e per anni sono stata indecisa se identificarmi con Catherine Miller, inglese in vacanza in Italia, o con Rita Verde, che lavorava al ristorante della Stazione, entrambe mie coetanee. Alla fine però ho deciso di identificarmi con Iwao, un ragazzo giapponese felice di essere in Italia con una borsa di studio per scoprire l’arte italiana. Perché lui, maschio di vent’anni? Perché al momento dello scoppio della bomba stava scrivendo il suo diario, aggiornandolo con il suo entusiamo di essere in partenza per Venezia. Mi piace (forse stupidamente) pensare di avere vissuto anche un po’ per lui.
Siamo arrivati a Parma il 3 agosto 1980 alle quattro del mattino e, non domi, abbiamo deciso di andare a vedere il sorgere dell’alba a Torrechiara, nelle prime colline parmensi, dove c’è un bellissimo castello. Lì, un occhio innamorato mi ha scattato questa foto (mi scuso per la qualità, ma insomma é la foto di una foto di quarantatre anni…)
Cosa stavo pensando? Non so, forse solo a quella magnifica alba che stava sorgendo e a tutta la vita che avevo davanti…
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