sabato 16 aprile 2022

RISPONDERE A PIF

 Luciano Canfora è professore emerito di filologia greca e latina e distributore da decenni di idee sulla contemporaneità tutte concentrate, in tempi e in modi diversi, sul sostegno al totalitarismo in particolare di stampo sovietico. Anche in occasione delle (troppo) numerose uscite pubbliche in occasione della guerra in corso, non ha mancato di fare sentire il suo sostegno all’aggressore russo, spostando le responsabilità sulla NATO (e quindi sugli americani). Niente di nuovo, peraltro.

In specifico, ha risposto ad una domanda di un liceale in occasione di un incontro presso una scuola, che gli chiedeva se Putin è un dittatore in questo modo:

"Per ora è il presidente della Federazione russa", chiamarlo dittatore implica invece un "giudizio etico". 

Citando questo episodio, Pif, in un programma radiofonico del sabato mattina da lui condotto, si chiede semplicemente : “Ma cosa deve fare uno per essere definito una merda da tutti?”, non trovando risposta o spiegazione plausibile.

Io risponderei che finchè esistono propaganda ed ideologia è impossibile perfino interpretare ciò che si ha davanti agli occhi. Propaganda ed ideologia non hanno bisogno della realtà, figurarsi della verità.

(Con nota a margine rilevo il mio sollievo di non capire niente di filologia greca a latina, per fortuna, perché posso così coltivare la speranza che almeno in quel campo il lavoro accademico di Canfora sia valso la quantità di denaro pubblico spesa per una vita da professore universitario. Certo, il metodo scientifico non deve essere stato il suo forte.)

venerdì 15 aprile 2022

LA VIA CRUCIS DI RUSSI ED UCRAINI

 Poichè stasera alla Via Crucis vaticana e televisiva una donna russa ed una ucraina porteranno insieme la croce si è scatenata una polemica forse esagerata. Ammetto però che ho avvertito un senso di fastidio e ho cercato di capire perché. Sono andata anche a leggere il testo che accompagnerà le due donne e ho trovato questo: «Dove sei, Signore? […] Perché hai abbandonato i nostri popoli? Perché le nostre terre sono diventate tenebrose come il Golgota?»  e ho cominciato a riflettere.

Le due donne sono sicuramente limpide e in buona fede, amorevoli e pacifiche come la gran parte delle donne dei loro popoli, sono il meglio esibito dalla storia, sicuramente. Inoltre, il concetto di riconciliazione è sicuramente quanto di più alto, nobile ed utile possa esprimere l’essere umano. È sempre il finale migliore, quando due parti si riconciliano.

Ma se devo seguire fino in fondo la mia personale via Crucis da atea, trovo in me con dolore un paio di riflessioni che mi inquietano.

Innanzi tutto, le due donne sono sicuramente l’umanità al meglio, ma non sono lí come persone singole, ma come rappresentanti dei loro popoli. E uno dei due popoli è l’aggressore e l’altro è l’aggredito, uno l’aggressore, l’altro la vittima. I “nostri” popoli non sono “nostri”, le “nostre terre” (e qui ho un brivido pensando alla dottrina di Putin, sicuramente solo involontariamente sfiorata) non sono “nostre”. Sono due popoli e due terre in guerra. E forse nessuno può a pieno titolo arrogarsene il diritto, ma sicuramente solo una di queste due donne, in quanto rappresentante del suo popolo, può legittimamente urlare al mondo “Se questo è un uomo…”. Come si è più volte constatato in questa situazione di guerra, mettere sullo stesso piano vittima ed aggressore, in nome di una pretesa equidistanza di volta in volta giustificata da propaganda, estraneità (non “prendere parte”), o come in questo caso pacifismo e umanesimo, nella sostanza favorisce solo l’aggressore, entità ben contenta di smentire tutte le argomentazioni sollevate.

E poi la riconciliazione, sí, la riconciliazione. Vista nel contesto di storia attuale, appare molto vicina al tragico, e attigua al ridicolo. Quale riconciliazione in un contesto in cui l’esercito invasore avanza tra mine bombe e missili, facendo strage di civili? Quale riconciliazione se una delle parti ha menato per il naso le diplomazie di tutto il mondo per mesi (ricordo a mente e in ordine sparso, UE, Francia, Germania, USA, Israele, Turchia…) senza nessuna base di trattativa vera o richiesta veritiera? La riconciliazione, qui ed ora, sembra più uno slogan, anche un po’ideologico, poiché gli slogan non prevedono vie di azione o soluzioni. Estremizzando, sembra che la riconciliazione privi le vittime di guerra del vedere rispettato il loro ultimo baluardo, lo status di vittima di guerra, appunto.

Così, penso sul serio che la Chiesa di Francesco faccia grandi cose sul fronte dell’accoglienza e del sostegno umanitario, ma penso anche che la fede, che io non possiedo, non possa fare a meno di confrontarsi con la ragione e credo che la Chiesa in questo caso dia un messaggio politico davvero sbagliato (tutti facciamo politica, non nascondiamoci dietro a un dito, in questo caso il dito della fede). Per fortuna stasera sarò esentata, in quanto non credente, dalla visione della Via Crucis.

lunedì 11 aprile 2022

IL DESERTO AL POSTO DELLA PACE

 

 

IL PENSIERO ANTI SISTEMA E NEGAZIONISTA (Massimo Recalcati)

 Massimo Recalcati

La Russia, Pasolini e le anime belle 

La Stampa, 10 aprile 2022

In una recente intervista la scrittrice Edith Bruck, sopravvissuta ad Auschwitz, denuncia il suo sconforto nel constatare come l’evidenza dei massacri di civili inermi perpetrati dall’esercito russo in Ucraina anziché sollevare un coro unanime di sdegno animi invece crescenti dubbi e perplessità. Gli stessi che gli storici definiti “negazionisti” adottarono per provare a sconfermare l’esistenza traumatica della Shoah. Un recente manifesto che riunisce noti e autorevoli giornalisti invita a verificare le prove, procedere con cautela nella lettura dei fatti, attenersi al reperimento degli indizi certi prima di formulare giudizi e attribuire responsabilità.

Quanti sono stati veramente i bambini uccisi? Le donne stuprate? Gli uomini torturati? I civili ammazzati? Davvero sono morti a centinaia sotto il teatro di Mariupol? Chi lo dice? Dove sono le prove? E di quali misfatti si sono macchiate anche le truppe ucraine? Quale è la responsabilità del governo di Kiev nel rappresentare a sua volta in modo solo propagandistico la verità? Nei talk show televisivi, seguendo il fortunato schema collaudato nella pandemia, si invitano voci dissonanti, divergenti, fuori dal coro per preservare lo spirito democratico del dibattito. L’audience, come sanno bene i conduttori, in questi casi ci guadagna significativamente. Prima era il turno dei no vax con le loro variopinte casacche a difendere con vigore i diritti costituzionali calpestati dal nuovo regime total-sanitario che approfittando della pseudo-pandemia avrebbe ristretto in modo abusivo le nostre libertà individuali costringendo milioni di persone a sottoporsi a una vaccinazione con un siero non ben identificato, ma alla lunga, molto probabilmente, più letale del male che intendeva contrastare. Ora è il turno della guerra in Ucraina. Eppure la postura resta sempre la stessa: al centro è lo stesso pensiero anti-sistema e negazionista. Il populismo no vax si trasfigura così in quello dell’equidistanza se non dell’aperta difesa di Putin, vittima della maligna avidità dell’Occidente. Insomma, dovremmo fare attenzione alla contraffazione della verità che, attraverso la spudorata manipolazione dei media, la riduce a mera propaganda guerrafondaia che difende gli interessi americani, una Europa corrotta e incapace, l’élite finanziaria, l’oligarchia del governo Draghi, il tradimento del popolo, ecc.


Di fatto sarebbero in corso due guerre distinte: quella che gli eserciti combattono sul campo e quella del conflitto delle interpretazioni. Seguendo il fortunato slogan secondo il quale la verità sarebbe la prima vittima di ogni guerra – i fatti sono resi irriconoscibili dalla propaganda – sarebbe solo grazie alla nobile figura del dubbio e della raccolta necessaria e paziente delle prove che si riuscirebbe a ricostruire una verità sfuggente. Ma l’effetto di questo atteggiamento è che l’evidenza viene annullata in una girandola di discorsi che finisce per annullare le responsabilità mescolandole in una sola indistinta poltiglia. Non a caso la nozione di “complessità” gioca un ruolo retorico cruciale in questa battaglia delle interpretazioni. Il rinvio del giudizio, la ricostruzione storica, l’equidistanza necessaria, l’attribuzione di eguali responsabilità dei due contendenti (Nato e Putin; Russia e Ucraina) getta, in realtà, sabbia negli occhi. Ma gli occhi di Edith Bruck, che hanno già visto l’orrore, non hanno affatto bisogno della nobile arte del dubbio, non servono a lei ulteriori prove per riconoscere un crimine di guerra.

Se un regime, come quello russo, occulta sistematicamente da più di vent’anni la verità, reprime il dissenso, abolisce ogni forma di democrazia, uccide e avvelena gli oppositori, coltiva il sogno della Russia come baluardo nei confronti della democrazia, scatena una guerra nel cuore dell’Europa, bombarda le città, uccide i civili inermi, è davvero necessario sollevare dubbi, perplessità, interrogativi sul massacro di Bucha e agli altri che purtroppo ne seguiranno? Nel nome di quale concezione astratta della verità? Non sono sufficienti le testimonianze, le immagini, i racconti dal fronte? Ma, direbbero i preoccupati per la difesa ad oltranza della verità, alcuni dettagli non tornano, alcuni elementi restano contraddittori, non tutto quadra, bisogna fare attenzione.

“Anime belle del cazzo”, risponderebbe loro Pasolini, non vedete che qui c’è un popolo che lotta disperatamente per la difesa eroica della propria terra offesa da una invasione che non può avere giustificazioni? Nella sproporzione delle forze, nell’ingiustizia di un’aggressione subita, nella cieca violazione dell’intimità delle famiglie, nelle città rase al suolo, nell’atroce sofferenza collettiva, un popolo resiste. E voi credete davvero che nel nome della ricerca paziente della verità sia necessario mostrare la sfumatura, indicare dove le acque si mescolano, le colpe comuni, gli inganni e i torti reciproci, problematizzare, disquisire per scambiare i piani, mettendo sullo sfondo ciò che deve restare al centro e viceversa?

È quello che accade talvolta anche nel caso delle separazioni conflittuali tra coppie. Esiste una verità comunemente riconosciuta: la responsabilità va sempre distribuita in parti eguali. Poi però ci sono anche situazioni cliniche dove la responsabilità è con evidenza di una sola delle due parti; e, questi casi, è solitamente la responsabilità di chi non è in grado di accettare la volontà di libertà dell’altra


parte. È il maschilismo evidente della guerra di Putin: non tollerare la libertà di una terra che considera  di sua proprietà.

mercoledì 6 aprile 2022

AUMENTARE LA BELLEZZA (MA CHE FATICA!)



È davvero faticoso sopportare tutto questo. Non è facile sperare nel futuro. È più verosimile farsi prendere dal dolore e dalla rabbia. Sono addolorata e arrabbiata, la bellezza sembra davvero lontana.



 

lunedì 4 aprile 2022

L’ALLUCINAZIONE DELLA GUERRA

 

L’allucinazione della guerra

Massimo Recalcati (Doppio Zero, 4 aprile)

Se si rileggono le riflessioni di Freud sulla guerra e la morte pubblicate nel 1915, nella drammatica congiuntura legata allo scoppio della prima guerra mondiale, non può sfuggire come il loro punto di partenza sia costituito dalla coincidenza che egli stabilisce tra lo “straniero” e il “nemico” (Cfr. S. Freud, Considerazioni attuali sulla guerra e sulla morte). Questa coincidenza non è solo storica ma ontologica; nella concezione freudiana in questa coincidenza si rivela una verità fondamentale che caratterizza la forma umana della vita: il mondo straniero – “fonte di enormi quantità di stimolazioni” – non può che essere avvertito dall’apparato psichico come un fattore di perturbazione, come una minaccia nei confronti della sua inclinazione rigidamente omeostatica. Per questo, se continuiamo a seguire Freud, “l’odio è più originario dell’amore” poiché l’odiato, l’estraneo e il nemico sono, nel loro fondo, la stessa cosa.

 

Questo comporta riconoscere che la tendenza primaria della pulsione non sia affatto quella che favorisce l’espansione della vita, quanto piuttosto quella di una strenua difesa della vita dal rischio insormontabile che la vita stessa comporta. In altre parole, la tendenza primaria dell’umano non può non essere paranoica: il mondo in quanto fonte di stimolazioni ingovernabili appare innanzitutto come una minaccia per il funzionamento dell’apparato psichico. Di qui, come Freud si esprimerà in Al di là del principio di piacere, il paradosso per il quale la “protezione” dagli stimoli conta assai di più della loro “recezione”. In gioco è quella che nelle sue Considerazioni attuali sulla morte e sulla guerra Freud definisce l’ambivalenza fondamentale che caratterizza i nostri rapporti con il prossimo: Eros sospinge verso l’Altro, ma l’Altro in quanto straniero è vissuto come una minaccia incombente. Questa ambivalenza contraddistinguerebbe persino le relazioni con l’Altro più prossimo, con i “nostri cari”.

L’eccessiva preoccupazione per la loro salute, come l’intenso cordoglio che può accompagnare la loro perdita, non sono privi di un paradossale senso di colpa che segna il fatto scabroso che dietro l’attaccamento eccessivo per i “nostro cari” vi sia un innominabile voto di morte. È quello che ci ha ricordato l’esperienza drammatica della pandemia: senza l’Altro la nostro vita perde senso, ma la prossimità dell’Altro può essere fattore di morte e di malattia. Il distanziamento diviene così quella misura preventiva che evita il rischio della contaminazione e dell’invasione dei nostri confini. Non a caso è proprio la paura della vita ad essere il fondamento di quella pulsione securitaria che Hobbes situa alla radice dello Stato moderno e, più in generale, del patto sociale: lo stato di natura della “guerra di tutti contro tutti” – la paura della morte – genera la necessità di un potere che garantisca la protezione della vita. 

 

Nondimeno la pulsione securitaria può assumere le forme di una pulsione aggressiva. L’azione militare viene spesso invocata da chi la innesca, come sta avvenendo anche nel caso della guerra in Ucraina, come un’azione eminentemente difensiva. Tendenzialmente è sempre nel nome della difesa della propria sopravvivenza – integrità, sovranità, identità – che si scatenano le guerre. Anche la necessità più chiaramente espansionistica (si pensi alla Germania nazista) è stata storicamente giustificata come una necessità interna che risponde all’esigenza primaria dell’autoconservazione di un proprio spazio vitale. Franco Fornari in La psicoanalisi della guerra, pubblicato nel 1966 in piena guerra fredda e minaccia atomica, aveva definito la guerra come una “elaborazione solo paranoica del lutto”.

 

Mentre il lutto implica un dolore e uno sconforto profondi legati alla perdita di un oggetto amato – una persona cara, un ideale, un territorio, ecc. – e si configura come il difficile e tortuoso lavoro della sua elaborazione simbolica, la paranoia, al contrario, è un modo per rigettare sullo straniero o sul nemico la responsabilità di questa perdita al fine di negarne l’esistenza. Esemplare è l’analogia, prelevata dalla ricerca etnologica sulle tribù primitive, proposta da Fornari: se accade che in una tribù muoia improvvisamente il figlio del re, anziché elaborare questo lutto atroce – psichicamente indigeribile – si preferisce scatenare una guerra contro la tribù confinante attribuendo al suo sciamano la responsabilità di quella morte.

Al posto del lavoro doloroso del lutto si scatena così la violenza della guerra: il dolore interno per la perdita irreversibile del figlio del re si trasfigura in una pulsione aggressiva rivolta all’esterno, diretta verso la tribù nemica. In questo senso la guerra condivide lo stesso statuto psicotico dell’allucinazione: il pensiero persegue la “via più breve” evitando quella “più lunga” come esigerebbe invece il tortuoso e doloroso cammino simbolico del lutto.

 

L’allucinazione della violenza coprirebbe il buco apertosi nel reale a causa dell’esperienza irreversibile della perdita. Alla “via lunga” della diplomazia e della mediazione della parola si preferisce quella breve di una soluzione (la guerra) che vorrebbe abolire ogni interlocuzione. La legge allucinatoria della forza militare si sostituisce a quella dialettica della parola. È proprio per questa ragione che ogni democrazia porta nel suo cuore una profonda esperienza collettiva del lutto. Quale? Non esiste una sola lingua, non esiste un solo popolo, non esiste una sola interpretazione della verità. La vita della democrazia resta sempre incompiuta – imperfetta, insatura, incompleta – poiché il suo compimento abolirebbe il lutto che ne costituisce il fondamento. La perdita della Cosa sancita dall’esistenza della Legge della parola impone, infatti, all’umano la perdita di ogni ideale di totalità. È dal lutto di questa perdita che sorge la vita della democrazia o, se si preferisce, l’esistenza della democrazia non può che realizzarsi come un lavoro del lutto che rammemora il carattere irrecuperabile di quella perdita.

 

Al contrario, tutti i regimi non democratici sono tendenzialmente sospinti verso la guerra come alternativa paranoica al lavoro del lutto perché perseguono una realizzazione della Verità che esclude forzatamente la divergenza e il pluralismo imposti dalla Legge della parola. Per i regimi dittatoriali e non democratici, infatti, l’esistenza dello straniero coincide, come spiegava Freud, con quella del nemico. Il moto acefalo della pulsione esclude la democrazia perché esprime un regime dell’Uno che vuole se stesso, dunque che esclude l’Altro. La guerra tende ad annichilare l’ostilità del mondo esterno – la sua radicale alterità – mirando a uniformare la vita in un solo mondo. A un pensiero democratico dell’integrazione si sostituisce quello autocratico della scissione; all’arte della diplomazia e della mediazione quella del sopruso e della potenza bellica. Non è forse quello che sta accadendo anche in questa ultima atroce e sanguinosa guerra? Anziché procedere nell’elaborazione collettiva del lutto per la perdita dell’ideale della grande Russia e del suo sconfinato Impero, per la perdita dei territori dovuta all’inarrestabile attrazione dei popoli verso la libertà e la democrazia dopo lo smembramento del Patto di Varsavia, anziché accettare, appunto, il lutto necessario della democrazia (non esiste un solo popolo, una sola lingua, una sola Verità), il miraggio autocratico di Putin resta fatalmente nostalgico, ancorato all’idea di un Impero separato dal mondo che egli intende restaurare nelle sue fondamenta.

Con la complicazione ulteriore che il suo rifiuto del lutto necessario della democrazia non provoca solo l’aggressione di un paese (l’Ucraina) considerato come un proprio territorio ingiustamente perduto, ma evoca la minaccia del ricorso all’arma atomica. È la radice autodistruttiva del narcisismo umano sulla quale la psicoanalisi ha sempre scabrosamente insistito: l’estrema affermazione della propria potenza di controllo – la bomba atomica – coincide con l’estremo rischio di perdita di ogni controllo; l’annientamento brutale dell’Altro coincide con il nostro autoannientamento. Distruttività e autodistruttività sono sempre legati come il recto e il verso di uno stesso foglio. È quello che si palesa drammaticamente nella bomba atomica: l’immenso potere di questo ordigno di guerra, mentre assegna una potenza illimitata a chi lo detiene, lo lega nello stesso momento a un fatale destino di auto-annichilimento. Lo strumento onnipotente della distruzione rivela la sua cifra pienamente autodistruttiva. È la vocazione profondamente suicidaria di ogni narcisismo maligno: l’affermazione illimitata di se stessi coincide con la propria autodistruzione. È la più grande follia dell’umano che la Torah non a caso descrive come la follia di assimilarsi a Dio.

 

Nel rivendicare la proprietà della bomba atomica e la sua potenza l’uomo non si erge forse a padrone assoluto del mondo? Se Freud aveva messo in luce come in ogni guerra la morte esca oscenamente dall’oblio a cui la costringe la vita ordinaria, seminando angoscia e rivelando la nostra castrazione strutturale, nella minaccia atomica non è solo lo spettro della nostra morte a venire evocato, ma la fine del mondo in quanto tale. Se agli occhi di Freud la prima guerra mondiale aveva animato la più radicale angoscia di castrazione confrontandoci crudelmente con il nostro destino mortale, la condizione della guerra atomica attiva un’angoscia psicotica.

 

La possibilità di una declinazione atomica della guerra non ci fa solo sentire impotenti – accade nello scoppio di ogni guerra convenzionale –, ma mette a rischio, come avviene in un delirio psicotico di “fine del mondo”, la nostra stessa sopravvivenza sul pianeta. Per questa ragione può essere più difficile metabolizzare il terrore di questa guerra che non quello legato alla pandemia. Quest’ultima non ha abolito, infatti, misure di controllo, di protezione e di difesa che dipendono dalla nostra volontà. Ma nella guerra atomica la nostra volontà viene radicalmente deposta, poiché siamo costretti a sperimentare la condizione psicotica di essere ridotti a oggetti inermi della volontà di godimento dell’Altro. Volontà ineffabile, capricciosa ed enigmatica, che destituisce la nostra iniziativa di qualunque potere. La follia dell’Altro prenderebbe così l’ennesima e terrificante rivincita sulle rivendicazioni impotenti della nostra autonomia. 


sabato 2 aprile 2022

PUNTI DI VISTA

 La scena è un aereo tra New York e Milano Malpensa. Roberto torna da un viaggio di lavoro negli USA ed è come tutte le volte seduto in uno dei sedili economy comfort, cioè quei sedili che costano un po’ di più perché hanno più posto per allungare le gambe (sono i sedili frontali, quasi sempre però dedicati  a chi ha bimbi piccoli o come in questo caso i sedili posti in corrispondenza delle uscite di sicurezza). Essendo Roberto di altezza ben superiore alla media questi sedili sono per lui quasi una questione di sopravvivenza. Accanto a lui viene a sedersi un giovane uomo di una certa eleganza anche lui affflitto da altezza eccessiva. 

Parlano un po’. 

Il giovane uomo è un russo, ideatore di giochi digitali, da anni residente in Italia dopo aver frequentato le migliori scuole del mondo di educazione di base e digital design. Per lavoro si reca spesso negli Stati Uniti dove soggiorna per brevi periodi. Parla benissimo sia italiano che inglese. “Upper class”, pensa Roberto, non proprio magari il figlio di un oligarca (avrebbe viaggiato in businness class, magari), ma certo di famiglia russa altolocata.

Parlano ancora.

Il giovane uomo, molto intelligente, misurato e pacato, si dice immensamente dispiaciuto per quello che sta avvenendo ai russi e agli ucraini, non inveisce contro la guerra, ma la chiama “invasione” e non ne capisce il senso nè utilitaristico nè morale ed etico. Misura le parole, è cauto, controllato, forse abituato ad una certa autocensura. Inoltre, dimostra conoscenza vasta ed approfondita del panorama politico italiano. Insieme parlano con una certa sintonia di Draghi, di Conte, di Salvini, di Renzi. 

Il ragazzo dice una cosa che colpisce Roberto “Voi siete davvero fortunati e non ve ne rendete conto ad avere governi che cadono in media ogni paio d’anni”. Roberto pensa a quanto questo ci faccia infuriare, ma dipende evidentemente dalle alternative. 

Punti di vista…