L’altro giorno un colombo è andato a morire nel pezzo del mio giardino di fronte alla casa. L’ho trovato una mattina, l’ho mosso con un bastone per vedere se era ancora vivo, ma era proprio morto, perfettamente intatto, con il piumaggio azzurrato ancora brillante, chissà di che cosa è morto, un urto, un avvelenamento, chissà.
Consultandomi con Roberto (che al momento era in Puglia da clienti) telefonicamente, abbiamo deciso di buttare il cadavere nella ormai fitta siepe sul didietro della casa, perchè nella nostra fossa di compostaggio avrebbe attirato animali (ripugnanti, tra l’altro) e insetti, ma io non ero in grado di scavare la piccola fossa necessaria per interrarlo nel terreno secco e duro. Ho quindi preso una vanga, ho caricato sopra il piccolo cadavere e con quella in bilico ho percorso il paio di centinaio di metri per arrivare alla siepe che confina con un campo dietro casa.
Camminando, guardavo dispiaciuta il povero corpicino aggraziato e ho pensato che un attimo prima era un uccello in volo, giovane e pieno di vita e poi, appena la vita con un soffio esce, non è più niente. Non solo, il corpo, così importante per vivere, diventa un rifiuto ingombrante e di difficile smaltimento. Mi è corso il pensiero a quella lettera in cassaforte destinata ai figli in cui chiedo cremazione e nessun rito e annucio funebre e di spargere le ceneri possibilmente nel mio giardino o in Po.
Per fortuna, sono arrivata alla siepe, ho gettato con fatica nel folto intrico dei cespugli il corpicino e ho fermato il pensiero. Solo una piccola nota di cronaca.
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