mercoledì 23 dicembre 2015

IL BRODO DI CARNE

Non mi piace il brodo di carne, ma che dico? ABORRO il brodo di carne e in questo periodo in cui il brodo di carne è ahimè indispensabile per valorizzare il cibo natalizio parmigiano per eccellenza, i cappelletti, vorrei spiegare il perchè della mia repulsione.
Innanzi tutto il motivo è oggettivo: mi fa schifo la schiumina marrone che si forma e che bisogna diligentemente schiumare, mi fa schifo quella crosta solida e bianca che si forma sopra il brodo dopo averlo raffreddato ( in genere si mette la pentola del brodo pronto, già filtrato, fuori dalla finestra). Mia nonna prendeva col mestolo questo strato di grasso solidificato superficiale, lo toglieva dal brodo e lo gettava nel secchiaio dove a poco a poco si scioglieva in tante bollicine di grasso.
Ma questo schifo non basta - in realtà non mi fa veramente schifo quasi niente ed in particolare sul cibo sono molto avventurosa.
Il brodo di carne per me è sempre stato un simbolo della schiavitù delle donne. Mia nonna, donna per niente schiava che ha lavorato fuori casa tutta la vita, figlia di un operaio socialista prematuramente scomparso, in fornace a 9 anni, cuoca eccellente - ecco, lei si alzava la domenica mattina prima delle altre mattine perchè bisognava mettere su il brodo di carne per il pranzo della domenica, spadellava prima delle 7 del mattino per questo orribile scopo.
L'ho già detto? Aborro il brodo di carne - pesco i cappelletti con la forchetta e ne sorbisco di malavoglia un paio di cucchiai... (ma adoro i cappelletti!)



L'ANGOSCIA E IL TERRIFICANTE (È ALTRESÍ VERO CHE DIMENTICHIAMO IN FRETTA)



Le nostre vite scosse dall'irruzione del Terrificante

LO scorrere della vita ordinaria occulta il Terrificante; il tran tran burocratico delle nostre abitudini esorcizza l'eventualità, sempre possibile, dell'imprevisto, dell'inatteso, di ciò che potrebbe scompaginare traumaticamente la nostra quotidianità.
Lo teorizzava a sua modo David Hume: se nulla può assicurarci che il sole sorgerà anche domani — come avviene dall'inizio dei tempi — solo l'abitudine ci consente di prevedere, con ragionevole certezza empirica, che questo accadrà regolarmente. Il che significa che esiste una evidenza naturale del mondo che assicura il quadro stabile della realtà esorcizzando la presenza sempre in agguato del Terrificante.
Per questo Lacan affermava che nella nostra vita quotidiana siamo tutti sempre un po' addormentati. Viviamo in una routine frenetica che benda il nostro sguardo. La città e le sue strade, i cieli, i voli aerei, gli orari dei treni, le scadenze amministrative, i divertimenti, gli orari di lavoro, la Chiesa, il teatro, il cinema, la libreria, la nostra casa; tutto appare avvolto dalla nebbia di una normalità che nasconde la presenza minacciosa del Terrificante. Il luogo comune della vita insieme sembra necessariamente imborghesire l'esistenza occultando la sua vulnerabilità più profonda. Per questa ragione la malattia mortale che può sopraggiungere senza preavvisi ci stordisce costringendoci ad un risveglio doloroso e angosciato. È un volto del Terrificante: il quadro stabile della realtà vacilla, si disintegra, non offre più alcun rifugio; la vita addormentata nel confort più o meno assicurato dalla sua routine è costretta bruscamente a risvegliarsi come se si trovasse protagonista di un incubo.
È quello che accade anche nel tempo del terrorismo diffuso dove la minaccia della presenza della bomba non è l'artificio narrativo di qualche film, ma irrompe sulla scena della realtà disfacendo la stabilità ordinaria del suo quadro. È quello che è accaduto all'indomani dell'11 settembre: quell'attentato assolutamente impensabile e impossibile, ci ha costretti a pensare, ci ha obbligati a scuoterci dal torpore delle nostre abitudini.
Il trauma che esso ha provocato, come ha fatto notare giustamente Jacques Derrida, non concerne tanto l'evento in sé ma l'ombra dell'insicurezza che si estende sul nostro futuro: potrà accadere ancora quello che sembrava impossibile potesse accadere.
La presenza invisibile della bomba non suscita paura, ma angoscia. Nella paura l'oggetto ha, infatti, contorni definiti, la sua presenza è riconosciuta obbiettivamente come pericolosa rendendo possibile la risposta difensiva più immediata che è quella della fuga.
La minaccia dell'attentato terroristico, invece, non si può localizzare perché si infiltra invisibilmente nelle pieghe della nostra vita più comune. Un treno, un aereo, uno stadio, un bar, un museo non sono luoghi riconoscibili come pericolosi. Non sono obiettivi sensibili. Sono piuttosto luoghi della nostra vita ordinaria che schermano il Terrificante, che nascondono il reale della morte che accompagna la nostra vita.
La strategia psicologica del terrorismo punta a strappare la maschera a questi nostri luoghi comuni diffondendo il rischio della morte dappertutto.
La sua scommessa è quella di scatenare il panico destabilizzando il quadro della realtà. In questo senso esso assomiglia davvero al Terrificante della morte che ciascuno di noi porta dentro di sé.
L'attentato terroristico non si realizza semplicemente attraverso l'uccisione delle sue vittime, ma nella diffusione del Terrificante ovunque. In questo senso anche un falso attentato realizza perfettamente questo scopo. I terroristi indossano le vesti perverse di chi vuole mostrare che la morte è la sola realtà della vita. A loro non interessa uccidere ma angosciare, generare insicurezza, smarrimento, panico. Il nostro attaccamento alla vita è il loro maggiore alleato. La minaccia dell'attentato nei luoghi più comuni della nostra esistenza ci svela fragili, impotenti, ci obbliga ad indietreggiare senza sapere bene in quale direzione.
È questo lo scopo massimo del loro disegno perverso che per altro essi dichiarano esplicitamente nei loro messaggi farneticanti: non esiste rifugio, non esiste possibilità di fuga, non esiste salvezza come se il corpo della nostra vita comune fosse invaso da metastasi talmente diffuse da rendere impossibile ogni operazione.
©RIPRODUZIONE RISERVATA
Massimo Recalcati

venerdì 11 dicembre 2015

DISCORSO ALL'UMANITÀ

Ho risentito recentemente questo pezzo-capolavoro del grande maestro Chaplin, un pezzo che ha segnato e in certo qual modo ossessionato alcuni anni della mia prima giovinezza. Riascoltandolo, mi ha ancora, dopo quarant'anni, emozionato. Come nell'affresco dell'Allegoria del Buon Governo di Lorenzetti a Siena (del 1300!) anche questo monologo all'umanità contiene già tutto quello di cui abbiamo bisogno. Com'è che non impariamo mai?

https://m.youtube.com/watch?v=u-Heclsnxi0

In questa clip manca poi il pezzo finale, quello che ancora oggi - irragionevolmente - mi dà speranza

« Anna, mi puoi sentire? Dovunque tu sia abbi fiducia nel domani. Anna, le nubi si diradano ed il sole inizia a risplendere. Prima o poi usciremo dall’oscurità per andare verso la luce e vivremo in un mondo nuovo. Più buono, in cui gli uomini si solleveranno al di sopra del loro odio, della loro brutalità e della loro avidità. Guarda in alto, Anna. L’amore umano troverà le sue ali e inizierà a volare con le sue ali nell’arcobaleno verso la luce della speranza, verso il futuro. Il futuro radioso che appartiene a me, a te. Ed a tutti noi. Guarda in alto, Anna. Lassù. »


Mi piace pensare che nell'incarnazione di Anna, mia figlia, oggi, ci sia un lontano legame con questa Anna, disperata, buttata a terra, ma così fortemente richiamata alla vita, che guardava nonostante tutto con speranza al futuro.