Tutti coloro che si rendono conto con allarme che la rielezione di Trump è uno dei momenti più profondamente pericolosi della storia americana devono pensare attentamente a dove siamo
La mattina seguente al giorno in cui Donald Trump è stato eletto presidente per la prima volta, nel 2016, alla Casa Bianca regnava un clima funereo. Per settimane, Barack Obama e la sua cerchia più stretta avevano coltivato preoccupazioni sulla campagna di Hillary Clinton - l'incapacità di visitare gli stati in bilico con frequenza sufficiente, l'altezzosa incrinatura riguardo ai "deplorabili", la lettera last minute di James Comey al Congresso riguardante le e- mail. Ma, nonostante tutti i segnali e gli inciampi, erano ottimisti che in una gara più combattuta di quello che si pensava, l'America avrebbe eletto la prima donna alla Presidenza. Un'eredità, una continuità, avrebbero vinto.
La scioccante vittoria di Trump mandò a pezzi queste aspettative e quel giorno, mentre molti dello staff, giovani e affranti, si riunivano nello Studio Ovale, Obama cercò di sollevare il loro morale convincendoli che l'elezione di un aspirante autocrate non determinava la fine dell'esperimento americano di democrazia liberale, lungo, per quanto profondamente imperfetto. Disse loro che la storia non si muove su linee dritte, a volte deraglia, a volte torna indietro. Fu un discorso solenne, pastorale e, probabilmente, Obama era anche impegnato in una forma di auto-consolazione. Due giorni dopo, in una intervista con il New Yorker, Obama ancora una volta ha cercato di contenere la disperazione " Penso che niente sia la fine del mondo fino alla fine del mondo".
Privatamente, Obama, il primo uomo di colore eletto alla Casa Bianca, si chiedeva se non fosse per caso "arrivato troppo presto". Talento politico della sua generazione, Obama aveva sviluppato il linguaggio e la narrativa assai risonanti del movimento dei diritti civili ("la feroce urgenza del qui ed ora") mettendoli al servizio di riforme ad ampio raggio, in particolare l'Affordable Care Act. La sua residenza in una casa costruita da schiavi neri, uomini e donne, pareva suggerire magari non ancora la fine del razzismo americano, ma sicuramente un progresso significativo dell'idea di democrazia multietnica. Ma ora il suo successore era innegabilmente un reazionario - un velenoso demagogo, un bigotto, qualcuno che proponeva una storia americana molto diversa. Trump diceva ai suoi sostenitori che il sistema era "truccato" e che i leader stranieri stavano "ridendo di noi". La nazione era un inferno di infausti "immigrati illegali", "stupratori", membri di gang e psicotici provenienti da lontane prigioni e manicomi. La nazione era un "massacro americano" e solo lui poteva mettere a posto le cose.
Poco tempo dopo la fine del secondo mandato di Obama, l'ex presidente era in Lima, Perù, accompagnato ad un evento con alcuni del suo staff. Lungo la strada, confidò loro che aveva appena finito di leggere un articolo di un opinionista che ragionava che, eleggendo Trump, decine di milioni di americani avevano rifiutato le politiche identitarie liberali. "Ma se avessimo avuto torto?", disse Obama, "forse ci siamo spinti troppo avanti. Forse la gente vuole solo ricadere nelle proprie tribù" (così riportano le memorie di uno dei suoi consiglieri, Benjamin Rhodes).
Le cause dell'elezione di Trump nel 2016 sono state molteplici e tra queste il fallimento dell'immaginario collettivo. E' davvero difficile comprendere come una figura che combinava i tratti di George Wallace, Hulk Hogan e Padre Charles Coughlin sia riuscito a vincere la corsa per la Presidenza. Allo stesso modo in cui Obama cercava con difficoltà di capire le radici sociali e politiche del trumpismo, molti americani non erano riusciti a comprendere appieno il suo carattere e le dimensioni reali del suo malanimo. Era impossibile per loro accettare e comprendere il rischio che comportava per le alleanze internazionali e per le istituzioni americane, e la misura del suo disprezzo per la verità, la scienza e così tanti dei suoi concittadini: sicuramente la sua retorica estrema era una recita, sicuramente "sarebbe cresciuto dopo aver assunto responsabilità di governo".
La rielezione di Trump e la sua vittoria su Kamala Harris non può più essere attribuita al fallimento dell'immaginario collettivo. Trump è certamente la figura pubblica meno misteriosa di tutte: ha sbandierato ai quattro venti ogni sua tendenza inquietante, senza sosta, pubblicamente, per decenni. Chi mai, sia tra i suoi sostenitori che tra i suoi nemici, non riconosce, come minimo in qualche grado, il suo cinismo e la sua divisività, il suo disprezzo per il sacrificio senza secondi fini? Secondo lui, i soldati caduti sono dei "babbei" (suckers). Molti dei suoi ex consiglieri - il vicepresidente Mike Pence, il suo capo dello staff John Kelly, il suo coordinatore dello staff Mark Milley - lo hanno descritto come inadatto, instabile e, almeno secondo Milley e Kelly, un fascista. Nelle settimane finali della campagna Trump ha fatto di tutto per rigettare le insistenze dei suoi consulenti a moderare i toni e ha invece fatto finta di praticare una fellatio con un microfono e ha minacciato di usare l'esercito contro "i nemici interni", enfatizzando ogni propria caratteristica schifosa, come a dire "Dimenticatevi dei discorsi preparati, ascoltatemi mentre vado a braccio: le teorie cospiratorie, la rabbia, la vendetta. gli attacchi razzisti, l'amicizia con Putin, Orban e Xi, Le storie senza alcun fondamento. Questo sono io, il vero me. Sono un genio!"
Insomma, non c'è niente che Trump non direbbe, nessuna invettiva o insulto che non scaglierebbe. Al Madison Square Garden, ha lasciato il palcoscenico a sostenitori che hanno parlato in modo grottesco di Porto Rico, degli Ebrei e delle persone trans - nessuna indecenza era proibita. Il suo più famoso spot televisivo era pura crudeltà "Kamala è per loro. Il Presidente Trump è per te". Il suo disprezzo per le donne, dimostrato apertamente per tutta la sua vita adulta, è stato amplificato nelle ultime settimane di campagna elettorale quando, in Michigan, ha detto di Nancy Pelosi "E' un diabolica, malata put... comincia con "put" ma non lo dirò, anche se vorrei dirlo".
Trump è stato ugualmente sfrontato riguardo alle politiche, non c'è più alcuna scusa per non vedere quello che può portare con sé una seconda Amministrazione Trump: la deportazione di massa di immigrati senza documenti; un governo federale infarcito di mediocri la cui migliore qualifica è la fedeltà al Grande Leader; un disprezzo per le politiche climatiche, per i diritti umani, per il controllo delle armi; un indebolimento della NATO; una Corte Suprema e un sistema giudiziario federale perfino più reazionari degli attuali; un assalto alla stampa. Queste non sono le proiezioni di un paranoico, ma promesse annunciate da un podio durante la campagna elettorale.
La notizia della rielezione di Trump non è arrivata come un fulmine a ciel sereno come la sua prima vittoria. Joe Biden, nonostante tutte le sue virtù e suoi traguardi legislativi, era un presidente davvero impopolare: almeno il 50% dei votanti nei maggiori stati in bilico disapprovava i risultati della sua presidenza. E, quando alla fine Biden si è convinto a riconoscere le difficoltà collegate all'età avanzata e ha quindi deciso il passo indietro, Harris, nonostante tutta la sua energia e la sua attraente intelligenza, ha avuto pochissimo tempo per condurre una campagna che potesse prendere le distanze sia dalla insoddisfazione che dagli oppositori di Biden, intrappolata com'era tra la sua lealtà a Biden e la necessità di distinguersi da lui, decidendo quindi di affidarsi alla capacità dell'elettorato di distinguere tra la sua evidente decenza e il buio caos rappresentato da Trump.
Malgrado la Harris si sia mostrata nettamente superiore nel loro unico confronto e malgrado il fatto che Trump abbia condotto a volte la sua campagna come un uomo mentalmente disturbato, da un rally all'altro. le prospettive di vittoria di Harris sono sempre state molto risicate. Quando il suo staff veniva interpellato sulle loro percezioni di vittoria, avrebbero probabilmente risposto "Ottimisti fino alla nausea". Alla fine, non solo Trump ha vinto nel voto popolare e in tutti e sette gli stati in bilico, ma sembra che abbia anche trovato strade tra i votanti maschi Latinos e Neri abbastanza ampie da mandare a pezzi la percezione tradizionale e molto auto-compiaciuta che il partito Democratico aveva rispetto al vantaggio in quest'area demografica.
Come di possa interpretare e mettere in fila la cascata di ragioni sottese alla rielezione di Trump è praticamente un test di Rorschach. Una lunga analisi sarebbe necessaria per stabilire quale dei fattori principali della vittoria di Trump (ansietà legata all'economia, politiche culturali, razzismo, misoginia, il declino di Biden, la breve campagna di Harris,,) sia stato determinante. Entrambi i partiti politici maggiori sono in pezzi. I Repubblicani, essendosi consegnati all'obbedienza cieca ad un politico autoritario, sono moralmente a pezzi; i Democratici, avendo fallito nel rispondere con efficacia ai problemi economici dei lavoratori, sono politicamente a pezzi.
Tutti coloro che si rendono conto con allarme che la rielezione di Trump è uno dei momenti più profondamente pericolosi della storia americana devono pensare attentamente a dove siamo. Le meste riflessioni come quelle di Obama nel 2016 ("Ma se avessimo avuto torto?") non furono efficaci allora ed ora non sono sufficienti. I Democratici dovranno, con umiltà e rigore autocritico, pensare a come ricostruire la coalizione inclusiva che F.D.R. riuscì a portare avanti nelle strette della Depressione o che Robert Kennedy (il padre, non quel poveretto del figlio) cercava nel 1968.
Questo è uno degli imperativi, ma ce n'è un altro. Dopo che le decine di milioni di Americani che hanno temuto il ritorno di Trump si libereranno dalle spire della depressione, sarà il momento di decidere cosa fare, presumendo che Trump porti avanti i suoi impegni più draconiani. Uno dei pericoli di vivere in un regime autoritario è che il leader tenta di sottrarre alla gente la loro forza, mentre il pessimismo prende il sopravvento e molti si ritirano dalla vita pubblica.
Una ritirata dell'America dalla democrazia liberale - un'eredità preziosa ma vulnerabile - sarebbe una calamità. L'indifferenza è una forma di resa. L'indifferenza alla deportazione di massa segnerà la negazione di una delle promesse che guidano la nazione. Vladimir Putin dà il benvenuto al ritorno di Trump non solo perché gli semplifica immensamente la vita nella sua determinazione a soggiogare un'Ucraina libera e sovrana, ma anche perché conferma la sua tesi che la democrazia americana è fasulla - che non esiste la democrazia e che tutto quello che ha importanza riguarda il potere e il proprio interesse. Il resto è bigottismo e ipocrisia. Putin ci ricorda che la democrazia liberale non è una stabilità, ma può rivelarsi invece un episodio.
Uno dei grandi del mondo moderno, il dissidente e scrittore ceco Vaclav Havel, ha scritto nelle sue "Meditazioni estive": "C'è solo una cosa che non ammetterò mai: che può essere privo di senso il combattere per una buona causa". Durante la lunga dominazione sovietica del suo paese, Havel ha combattuto con valore per la democrazia liberale, ispirando anche varie gesta di resilienza e protesta e pagando con la prigione per questo. Le cose sono poi però cambiate, Havel è stato eletto presidente e in una sorta di favola kafkiana si è installato nel Castello, a Praga. Insieme ad un popolo minacciato da anni di autocrazia, Havel ha collaborato a condurre il suo paese fuori da un lungo periodo di oscurità. Il nostro tempo ora è buio, ma anche questo può cambiare. E' successo in altre parti del mondo, può succedere anche qui.
(David Remnick, MITICO editor del The New Yorker, pubblicato il 9 novembre 2024, la traduzione è mia)