lunedì 30 dicembre 2024

RACCONTO DI NATALE: UN TEPORE NELLA MANO

 “Era oramai Natale e bisognava tirar fuori d’urgenza dalla casetta le statuette del Presepe, ripulirle, ritoccarle col colore, riparare le ammaccature. Ed era già tardi, ma don Camillo stava ancora lavorando in canonica. Sentì bussare alla finestra e, poco dopo, andò ad aprire perché si trattava di Peppone.

Peppone si sedette mentre don Camillo riprendeva le sue faccende e tutt’e due tacquero per un bel po’.
Don Camillo prese a ritoccare con la biacca la barba di San Giuseppe. Poi passò a ritoccargli la veste.
“Ne avete ancora per molto?” si informò Peppone con ira.
“Se mi dai una mano in poco si finisce”.
Peppone era meccanico e aveva mani grandi come badili e dita enormi che facevano fatica a piegarsi. Però, quando uno aveva un cronometro da accomodare, bisognava che andasse da Peppone. Perché, è così, sono proprio gli uomini grossi che son fatti per le cose piccolissime.
Filettava la carrozzeria delle macchine e i raggi delle ruote dei carretti come uno del mestiere.
“Figuratevi! Adesso mi metto a pitturare i santi!” borbottò. “Non mi avete preso mica per il sagrestano!”
Don Camillo pescò in fondo alla cassetta e tirò su un affarino rosa, grosso quanto un passerotto, ed era proprio il Bambinello.
Peppone si trovò in mano la sua statuetta senza sapere come e allora prese un pennellino e cominciò a lavorare di fino.
Lui di qua e don Camillo di là dalla tavola, senza vedersi in faccia perché c’era, fra loro, il barbaglio della lucerna.
“Non ci si può fidare di nessuno, se uno vuol dire qualcosa. Non mi fido neppure di me stesso” disse Peppone.
Don Camillo era assorbitissimo dal suo lavoro: c’era da rifare tutto il viso della Madonna. Roba fine.
“E di me ti fidi?”, chiese don Camillo con indifferenza.
“Non lo so”.
“Prova a dirmi qualcosa, così vedi”.
Peppone finì gli occhi del Bambinello: la cosa più difficile.
Poi rinfrescò il rosso delle piccole labbra.
“Hai paura?”
“Mai avuto paura al mondo!”
“Io sì, Peppone. Qualche volta ho paura”
Peppone intinse il pennello.
“Be’, qualche volta anch’io” disse Peppone. E appena si sentì.
Don Camillo sospirò anche lui.
Ora Peppone aveva finito il viso del Bambinello e stava ripassando il rosa del corpo.
Oramai il Bambinello era finito e, fresco di colore e così rosa e chiaro, pareva che brillasse in mezzo alla enorme mano scura di Peppone.
Peppone lo guardò e gli parve di sentir sulla palma il tepore di quel piccolo corpo.
Depose con delicatezza il Bambinello rosa sulla tavola e don Camillo gli mise accanto la Madonna.
“Il mio bambino sta imparando la poesia di Natale” annunciò con fierezza Peppone. “Sento che tutte le sere sua madre gliela ripassa prima che si addormenti. È un fenomeno”.
“Lo so” ammise don Camillo. “Anche la poesia per il Vescovo l’aveva imparata a meraviglia”.
Peppone si irrigidì.
“Quella è stata una delle vostre più grosse mascalzonate!” esclamò. “Quella me la dovete pagare”.
“A pagare e a morire si fa sempre a tempo” ribatté don Camillo.
Poi, vicino alla Madonna curva sul Bambinello, pose la statuetta del somarello.
“Questo è il figlio di Peppone, questa è la moglie di Peppone e questo è Peppone” disse don Camillo toccando per ultimo il somarello.
“E questo è don Camillo!” esclamò Peppone prendendo la statuetta del bue e ponendola vicino al gruppo.
“Bah! Fra bestie ci si comprende sempre” concluse don Camillo.
Uscendo, Peppone si ritrovò nella cupa notte padana, ma oramai era tranquillissimo perché sentiva ancora nel cavo della mano il tepore del Bambinello rosa. Poi udì risuonarsi all’orecchio le parole della poesia che ormai sapeva a memoria. “Quando, la sera della Vigilia, me la dirà, sarà una cosa magnifica!“ si rallegrò.
Il fiume scorreva placido e lento, lì a due passi, sotto l’argine, ed era anche lui una poesia cominciata quando era cominciato il mondo e che ancora continuava. E per arrotondare e levigare il più piccolo dei miliardi di sassi in fondo all’acqua, c’eran voluti mille anni.
E soltanto fra venti generazioni l’acqua avrà levigato un nuovo sassetto.
E fra mille anni la gente correrà a seimila chilometri l’ora su macchine a razzo super atomico e per far cosa? Per arrivare in fondo all’anno e rimanere a bocca aperta davanti allo stesso Bambinello di gesso che, una di queste sere, il compagno Peppone ha pitturato col pennellino”
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(Evidentemente Giovannino Guareschi, trovato nel blog di Michele Serra)

lunedì 23 dicembre 2024

COMMENTI SULL'ESITO DELLE ELEZIONI AMERICANE - "PUO' SUCCEDERE QUI"

 Tutti coloro che si rendono conto con allarme  che la rielezione di Trump è uno dei momenti più profondamente pericolosi della storia americana devono pensare attentamente a dove siamo

La mattina seguente al giorno in cui Donald Trump è stato eletto presidente per la prima volta, nel 2016, alla Casa Bianca regnava un clima funereo. Per settimane, Barack Obama e la sua cerchia più stretta avevano coltivato preoccupazioni sulla campagna di Hillary Clinton - l'incapacità di visitare gli stati in bilico con frequenza sufficiente, l'altezzosa incrinatura riguardo ai "deplorabili", la lettera last minute di James Comey al Congresso riguardante le e- mail. Ma, nonostante tutti i segnali e gli inciampi, erano ottimisti che in una gara più combattuta di quello che si pensava, l'America avrebbe eletto la prima donna alla Presidenza. Un'eredità, una continuità, avrebbero vinto.

La scioccante vittoria di Trump mandò a pezzi queste aspettative e quel giorno, mentre molti dello staff, giovani e affranti, si riunivano nello Studio Ovale, Obama cercò di sollevare il loro morale convincendoli che l'elezione di un aspirante autocrate non determinava la fine dell'esperimento americano di democrazia liberale, lungo, per quanto profondamente imperfetto. Disse loro che la storia non si muove su linee dritte, a volte deraglia, a volte torna indietro. Fu un discorso solenne, pastorale e, probabilmente, Obama era anche impegnato in una forma di auto-consolazione. Due giorni dopo, in una intervista con il New Yorker, Obama ancora una volta ha cercato di contenere la disperazione " Penso che niente sia la fine del mondo fino alla fine del mondo".

Privatamente, Obama, il primo uomo di colore eletto alla Casa Bianca, si chiedeva se non fosse per caso "arrivato troppo presto". Talento politico della sua generazione, Obama aveva sviluppato il linguaggio e la narrativa assai risonanti del movimento dei diritti civili ("la feroce urgenza del qui ed ora") mettendoli al servizio di riforme ad ampio raggio, in particolare l'Affordable Care Act. La sua residenza in una casa costruita da schiavi neri, uomini e donne, pareva suggerire magari non ancora la fine del razzismo americano, ma sicuramente un progresso significativo dell'idea di democrazia multietnica. Ma ora il suo successore era innegabilmente un reazionario - un velenoso demagogo, un bigotto, qualcuno che proponeva una storia americana molto diversa. Trump diceva ai suoi sostenitori che il sistema era "truccato" e che i leader stranieri stavano "ridendo di noi". La nazione era un inferno di infausti "immigrati illegali", "stupratori", membri di gang e psicotici provenienti da lontane prigioni e manicomi. La nazione era un "massacro americano" e solo lui poteva mettere a posto le cose.

Poco tempo dopo la fine del secondo mandato di Obama, l'ex presidente era in Lima, Perù, accompagnato ad un evento con alcuni del suo staff. Lungo la strada, confidò loro che aveva appena finito di leggere un articolo di un opinionista che ragionava che, eleggendo Trump, decine di milioni di americani avevano rifiutato le politiche identitarie liberali. "Ma se avessimo avuto torto?", disse Obama, "forse ci siamo spinti troppo avanti. Forse la gente vuole solo ricadere nelle proprie tribù" (così riportano le memorie di uno dei suoi consiglieri, Benjamin Rhodes).

Le cause dell'elezione di Trump nel 2016 sono state molteplici e tra queste il fallimento dell'immaginario collettivo. E' davvero difficile comprendere come una figura che combinava i tratti di George Wallace, Hulk Hogan e Padre Charles Coughlin sia riuscito a vincere la corsa per la Presidenza. Allo stesso modo in cui Obama cercava con difficoltà di capire le radici sociali e politiche del trumpismo, molti americani non erano riusciti a comprendere appieno il suo carattere e le dimensioni reali del suo malanimo. Era impossibile per loro accettare e comprendere il rischio che comportava per le alleanze internazionali e per le istituzioni americane, e la misura del suo disprezzo per la verità, la scienza e così tanti dei suoi concittadini: sicuramente la sua retorica estrema era una recita, sicuramente "sarebbe cresciuto dopo aver assunto responsabilità di governo".

La rielezione di Trump e la sua vittoria su Kamala Harris non può più essere attribuita al fallimento dell'immaginario collettivo. Trump è certamente la figura pubblica meno misteriosa di tutte: ha sbandierato ai quattro venti ogni sua tendenza inquietante, senza sosta, pubblicamente, per decenni. Chi mai, sia tra i suoi sostenitori che tra i suoi nemici, non riconosce, come minimo in qualche grado, il suo cinismo e la sua divisività, il suo disprezzo per il sacrificio senza secondi fini? Secondo lui, i soldati caduti sono dei "babbei" (suckers). Molti dei suoi ex consiglieri - il vicepresidente Mike Pence, il suo capo dello staff John Kelly, il suo coordinatore dello staff Mark Milley - lo hanno descritto come inadatto, instabile e, almeno secondo Milley e Kelly, un fascista. Nelle settimane finali della campagna Trump ha fatto di tutto per rigettare le insistenze dei suoi consulenti a moderare i toni e ha invece fatto finta di praticare una fellatio con un microfono e ha minacciato di usare l'esercito contro "i nemici interni", enfatizzando ogni propria caratteristica schifosa, come a dire "Dimenticatevi dei discorsi preparati, ascoltatemi  mentre vado a braccio: le teorie cospiratorie, la rabbia, la vendetta. gli attacchi razzisti, l'amicizia con Putin, Orban e Xi, Le storie senza alcun fondamento. Questo sono io, il vero me. Sono un genio!"

Insomma, non c'è niente che Trump non direbbe, nessuna invettiva o insulto che non scaglierebbe. Al Madison Square Garden, ha lasciato il palcoscenico a sostenitori che hanno parlato in modo grottesco di Porto Rico, degli Ebrei e delle persone trans - nessuna indecenza era proibita. Il suo più famoso spot televisivo era pura crudeltà "Kamala è per loro. Il Presidente Trump è per te". Il suo disprezzo per le donne, dimostrato apertamente per tutta la sua vita adulta, è stato amplificato nelle ultime settimane di campagna elettorale quando, in Michigan, ha detto di Nancy Pelosi "E' un diabolica, malata put... comincia con "put" ma non lo dirò, anche se vorrei dirlo".

Trump è stato ugualmente sfrontato riguardo alle politiche, non c'è più alcuna scusa per non vedere quello che può portare con sé una seconda Amministrazione Trump: la deportazione di massa di immigrati senza documenti; un governo federale infarcito di mediocri la cui migliore qualifica è la fedeltà al Grande Leader; un disprezzo per le politiche climatiche, per i diritti umani, per il controllo delle armi; un indebolimento della NATO; una Corte Suprema e un sistema giudiziario federale perfino più reazionari degli attuali; un assalto alla stampa. Queste non sono le proiezioni di un paranoico, ma promesse annunciate da un podio durante la campagna elettorale.

La notizia della rielezione di Trump non è arrivata come un fulmine a ciel sereno come la sua prima vittoria. Joe Biden, nonostante tutte le sue virtù e suoi traguardi legislativi, era un presidente davvero impopolare: almeno il 50% dei votanti nei maggiori stati in bilico disapprovava i risultati della sua presidenza. E, quando alla fine Biden si è convinto a riconoscere le difficoltà collegate all'età avanzata e ha quindi deciso il passo indietro, Harris, nonostante tutta la sua energia e la sua attraente intelligenza, ha avuto pochissimo tempo per condurre una campagna che potesse prendere le distanze sia dalla insoddisfazione che dagli oppositori di Biden, intrappolata com'era tra la sua lealtà a Biden e la necessità di distinguersi da lui, decidendo quindi di affidarsi alla capacità dell'elettorato di distinguere tra la sua evidente decenza e il buio caos rappresentato da Trump.

Malgrado la Harris si sia mostrata nettamente superiore nel loro unico confronto e malgrado il fatto che Trump abbia condotto a volte la sua campagna come un uomo mentalmente disturbato, da un rally all'altro. le prospettive di vittoria di Harris sono sempre state molto risicate. Quando il suo staff veniva interpellato sulle loro percezioni di vittoria, avrebbero probabilmente risposto "Ottimisti fino alla nausea". Alla fine, non solo Trump ha vinto nel voto popolare e in tutti e sette gli stati in bilico, ma sembra che abbia anche trovato strade tra i votanti maschi Latinos e Neri abbastanza ampie da mandare a pezzi la percezione tradizionale e molto auto-compiaciuta che il partito Democratico aveva rispetto al vantaggio in quest'area demografica.

Come di possa interpretare e mettere in fila la cascata di ragioni sottese alla rielezione di Trump è praticamente un test di Rorschach. Una lunga analisi sarebbe necessaria per stabilire quale dei fattori principali della vittoria di Trump (ansietà legata all'economia, politiche culturali, razzismo, misoginia, il declino di Biden, la breve campagna di Harris,,) sia stato determinante. Entrambi i partiti politici maggiori sono in pezzi. I Repubblicani, essendosi consegnati all'obbedienza cieca ad un politico autoritario, sono moralmente a pezzi; i Democratici, avendo fallito nel rispondere con efficacia  ai problemi economici dei lavoratori, sono politicamente a pezzi.

Tutti coloro che si rendono conto con allarme  che la rielezione di Trump è uno dei momenti più profondamente pericolosi della storia americana devono pensare attentamente a dove siamo. Le meste riflessioni come quelle di Obama nel 2016 ("Ma se avessimo avuto torto?") non furono efficaci allora ed ora non sono sufficienti. I Democratici dovranno, con umiltà e rigore autocritico, pensare a come ricostruire la coalizione inclusiva che F.D.R. riuscì a portare avanti nelle strette della Depressione o che Robert Kennedy (il padre, non quel poveretto del figlio) cercava nel 1968.

Questo è uno degli imperativi, ma ce n'è un altro. Dopo che le decine di milioni di Americani che hanno temuto il ritorno di Trump si libereranno dalle spire della depressione, sarà il momento di decidere cosa fare, presumendo che Trump porti avanti i suoi impegni più draconiani. Uno dei pericoli di vivere in un regime autoritario è che il leader tenta di sottrarre alla gente la loro forza, mentre il pessimismo prende il sopravvento e molti si ritirano dalla vita pubblica.

Una ritirata dell'America dalla democrazia liberale - un'eredità preziosa ma vulnerabile - sarebbe una calamità. L'indifferenza è una forma di resa. L'indifferenza alla deportazione di massa segnerà la negazione di una delle promesse che guidano la nazione. Vladimir Putin dà il benvenuto al ritorno di Trump non solo perché gli semplifica immensamente la vita nella sua determinazione a soggiogare un'Ucraina libera e sovrana, ma anche perché conferma la sua tesi che la democrazia americana è fasulla - che non esiste la democrazia e che tutto quello che ha importanza riguarda il potere e il proprio interesse. Il resto è bigottismo e ipocrisia. Putin ci ricorda che la democrazia liberale non è una stabilità, ma può rivelarsi invece un episodio.

Uno dei grandi del mondo moderno, il dissidente e scrittore ceco Vaclav Havel, ha scritto nelle sue "Meditazioni estive": "C'è solo una cosa che non ammetterò mai: che può essere privo di senso il combattere per una buona causa". Durante la lunga dominazione sovietica del suo paese, Havel ha combattuto con valore per la democrazia liberale, ispirando anche varie gesta di resilienza e protesta e pagando con la prigione per questo. Le cose sono poi però cambiate, Havel è stato eletto presidente e in una sorta di favola kafkiana si è installato nel Castello, a Praga. Insieme ad un popolo minacciato da anni di autocrazia, Havel ha collaborato a condurre il suo paese fuori da un lungo periodo di oscurità. Il nostro tempo ora è buio, ma anche questo può cambiare. E' successo in altre parti del mondo, può succedere anche qui.

(David Remnick, MITICO editor del The New Yorker, pubblicato il 9 novembre 2024, la traduzione è mia)



venerdì 20 dicembre 2024

PICCOLE STORIE DI OLIVIA E DELLA SUA MAMMA: MERCI BEAUCOUP



 Il tema “lingue” è molto trattato nella famiglia di Anna, formata da un madrelingua svizzero tedesco e una madrelingua italiana che tra di loro, quando si sono conosciuti, comunicavano in inglese e tutt’ora, anche se entrambi hanno imparato la lingua dell’altro, tendono a parlare inglese tra loro. Sullo sfondo una nonna paterna madrelingua svizzero francese sposata con un tedesco e un paese in cui le lingue del paese stesso (quattro, in un piccolo territorio), si intrecciano con moltissime altre lingue di persone che sono andate in Svizzera a creare la ricchezza di cui il paese abbonda e di cui loro stessi usufruiscono.

Olivia si trova quindi in mezzo a tutti questi ingredienti ambientali, per lei fortemente accentuati dal fatto che la sua mamma è adamantina sul fatto che lei debba parlare italiano da madrelingua insieme allo svizzero tedesco. Olivia è quindi molto consapevole del tema “lingua”, al punto che uno dei suoi video preferiti mostra qualche secondo di lei, in vacanza in Corsica la scorsa estate, che dice e ridice “merci beaucoup” che aveva appena imparato

Messaggio di ieri di Anna nella chat di famiglia:

 Olivia stava contando il numero di lingue che i suoi amici e famigliari parlano. Gigi e Aran (un suo amico) in pole position, e poi le chiedo “e tu?” “Italiano, deutsch e merci beaucoup” 🤣🤣”

mercoledì 11 dicembre 2024