Così è ancora Pasqua, ma quest’anno siamo solo in tre, Roberto, Gigi ed io e quindi niente, ho comprato i cappelletti e anche il brodo, perchè sono stufa di lesso, quest’anno mangeremo invece un lussuoso bollito che farò domani mattina con la salsa verde e la salsa rossa.
La Pasqua rimane per me la Pasqua dei miei diciamo otto anni. Vivevo nel paese della Bassa parmense dove sono nata in un piccolo appartamento di una casa di quattro appartamenti. Condividevamo il pianerottolo con i nonni materni ed erano loro il cardine di tutto ciò che succedeva nella famiglia. Pasqua era innanzitutto la grande impresa di fare montagne di cappelletti. Comandava la nonna Dina, grande cuoca amatoriale e genio di ogni abilità muliebre. Era lei a discutere a lungo con i macellai del paese, i mitici signori Bocchi, di quali tagli e pezzature di varie carni usare per lo stracotto e per il brodo; era lei a mettere sul fuoco e curare come una chioccia per almeno 12 ore lo stracotto, con sapienti aggiunte di vino se e quando necessarie; lei ad impastare una splendida pasta all’uovo, a dosare a occhio parmigiano e pangrattato e brodo di stracotto per il ripieno; lei a maneggiare l’insostituibile stampino da cui uscivano i cappelletti. A mia madre era relegato il ruolo al massimo di grattugiare il parmigiano (di tre stagionature mischiate), di ripiegare la pasta sui ciuffetti di ripieno sapientemente e perfettamente distribuiti e di mettere a posto ben allineati i cappelletti già fatti sulla grata grande ricoperta da uno strofinaccio. Anche io aiutavo a mettere a posto, ma soprattutto osservavo e gravitavo intorno alla nonna.
Tutte le donne alfa (dette rezdore) del paese stavano nello stesso momento compiendo lo stesso rito, con gli stessi gesti tramandati, custodi di una tradizione che non era possibile e nemmeno pensabile discutere. Osservavo e mi piaceva questo rito collettivo e familiare e mi confortavano le cucine dense di attività delle vicine del piccolo borgo incistato nel centro del paese dove vivevo. Ricordo che mi piaceva sostare nel piccolo giardino della nonna (era suo, nessun altro lo curava) di cui ricordo solo un pero che non faceva a mio ricordo mai pere, ma che era potato basso perchè fosse possibile per noi bambini salirci su in sicurezza - qualche rosa e una cornice folta di garofanini bianchi e rossi. Stavamo lí con gli amichetti ad annusare l’intenso profumo di brodo che veniva dalle case e ad aspettare che venisse ora di metterci i vestiti e le scarpe nuove e di andare a Messa. Mi piaceva andare a Messa perchè si cantava molto e mi affascinava lanciare la mia voce acuta, potente e cristallina di bimba nell’altezza che mi sembrava immensa dell’abbazia romanica del paese, una voce che cercavo di fare arrivare al cielo.
Da allora è cambiato molto e ho via via imparato molto, sono cambiati i posti, i protagonisti, ho vissuto in paesi oltreoceano e in diverse altre case. Ho dovuto ogni volta adattare le tradizioni non più così immutabili a cosa ero diventata (ho tolto la Messa dai riti), a dove ero (a Parma, a Sanguigna, a Texcoco, a West Lafayette e poi ancora a Sanguigna) e soprattutto a con chi ero (sono arrivati mio fratello Stefano, Roberto, i suoi genitori, sua nonna, Anna, Luigi, poi il compagno di Anna e sulla porta, vicino all’entrata, la morosa di Gigi). Ho dovuto fare i conti con via via sempre più assenze, prima il nonno e le nonne - tra cui l’insostituibile rezdora della mia infanzia - mio padre e i miei suoceri, tutte assenze però incorniciate da un ciclo naturale di vita. Le tradizioni le ho via via adattate con serenità, continuando a trarne conforto e senso di un qualcosa che si dipana e si svolge.
Ma quest’anno mi sono rifiutata: mia madre, ormai non autosufficiente, non potrà venire qua (nè noi possiamo andare a casa sua) e quindi non ci sarà neppure mio fratello, l’Anna non potrà esserci e noi non potremo andare a Zurigo ad aspettare la nipotina Olivia con lei. Ho capito perché quest’anno le tradizioni non reggono: perché sono basate sulla presenza di chi ci deve essere e di chi ci sarà, nella consapevolezza serena delle assenze. La Pasqua dei miei otto anni è rimasta perfetta nella mia mente perchè la me bambina non percepiva assenze (che pure per gli adulti erano sicuramente presenti) e percepiva il vento primaverile delle future presenze. Quest’anno non sarà così e quindi la me anziana manda al diavolo le tradizioni.
Mi immagino però l’anno prossimo, con l’Anna e Luigi ed io impegnati a fare i cappelletti e Olivia che ci starà intorno, inizialmente cercheremo di tenerla sul seggiolone, ma quando si sarà stancata di mettersi in bocca e maneggiare brutalmente i piccoli pezzi di pasta che le passeremo, inizierà a strepitare vigorosamente per essere al centro dell’attività e passerà tra le braccia di tutti cercando sempre di raggiungere il centro del tavolo. Allora chiameremo in aiuto il nonno che sarà fuori in giardino con le sue piante e lui arriverà di corsa, sollevandola al suo metro e novanta di altezza e ammutolendola per un attimo e poi la porterà in cortile con il cane e il gatto e le mille cose interessanti di cui è fatto un cortile e noi potremo continuare a sistemare i cappelletti. So che mancherà il suono deciso con cui con un colpo di polso la nonna staccava il cappelletto dallo stampo, quel TAC TAC TACche faceva da sfondo al lavoro. Ora abbiamo lo stampo a pressione, ma niente potrà sostituire quel suono.
Aspettando il prossimo anno, quest’anno supereremo anche la Pasqua. Solo, ieri mattina al mercato ho comprato un vasetto di garofanini. Non è quasi niente.