Quando tornano le rose ad inondare il giardino diventa più plausibile un comunque ingiustificato ottimismo
sabato 27 maggio 2017
giovedì 25 maggio 2017
CAPELLI... forse dovrebbe farmi ridere
mah.. non capisco bene.
Melania Trump è andata a capo scoperto con i suoi meravigliosi, sciolti e curatissimi capelli nella islamica ed ultraortodossa Arabia Saudita - e già era evidente un paradosso: qui a capo coperto erano gli uomini
Devo essere davvero invecchiata se ormai i miei riferimenti interpretativi non mi aiutano più a leggere la realtà.
Mi consola una cosa, però, che rappresenta una rassicurante costante: chi detiene il potere sono comunque sempre maschi - adesso mi ritrovo!
Melania Trump è andata a capo scoperto con i suoi meravigliosi, sciolti e curatissimi capelli nella islamica ed ultraortodossa Arabia Saudita - e già era evidente un paradosso: qui a capo coperto erano gli uomini
Poi va nella civilissima Europa dal " liberale" Bergoglio e si veste come una suora e si copre i capelli
Mi consola una cosa, però, che rappresenta una rassicurante costante: chi detiene il potere sono comunque sempre maschi - adesso mi ritrovo!
L'orrore spiegato ai nostri figli
L'orrore spiegato ai nostri figli
di MASSIMO RECALCATI, MASSIMO AMMANNITI - ARALDO AFFINATIL'obiettivo tragicamente chiaro: uccidere nel mucchio le vite dei nostri figli in un luogo di festa. Lo strumento terribilmente noto: una bomba cieca costruita per fare a pezzi i loro giovani corpi offrendoli al Dio pazzo e sanguinario che vuole la morte degli infedeli. E noi? Noi che restiamo attoniti di fronte a questa orrida malvagità? Non siamo solo esposti allo sgomento della nostra vulnerabilità impossibile da proteggere, al fatto semplice e brutale che niente può garantirci una sicurezza adeguata se il “nemico” ci colpisce in questo modo moltiplicando infinitamente i nostri punti sensibili. Siamo anche investiti di una responsabilità enorme. Cosa fare, cosa dire di fronte all’angoscia dei nostri figli? Quale responsabilità hanno gli adulti che osservano impotenti lo scempio compiuto sulle vite innocenti? Cosa possiamo fare per aiutare quelle vite che non sono state spezzate dalla violenza assurda della morte? L’obiettivo del narcisismo folle del terrorista islamico è quello di generare angoscia. Colpire l’innocente è colpire tutto il mondo. In gioco non è solo la punizione dell’Occidente corrotto, ma la chiusura, l’annientamento dell’orizzonte stesso del mondo. Dopo ogni attentato dove i nostri figli muoiono, muore con loro anche un pezzo di mondo. Dopo ogni attentato l’orizzonte del mondo si restringe, la libertà si riduce, si contrae, non è più libera.Siamo tutti, a causa della follia terrorista, nella condizione paradossale di vivere in una sorta di libertà prigioniera. È questo il vero messaggio di morte che il terrorismo ogni volta rinnova soprattutto quando stronca la vita nel pieno della sua giovinezza. La nostra prima responsabilità è fare in modo che questo lutto possa diventare davvero collettivo. Ma cosa significa? Condividere il lutto — renderlo collettivo — significa condividere un dolore sordo che vorrebbe separarsi e allontanarsi da tutto, significa continuare a scegliere l’apertura del mondo alla tentazione della sua chiusura.
È il terrorismo che vuole il muro, la guerra, lo scontro, il conflitto senza tregua. È il terrorismo che vuole che il mondo si chiuda, che perda la sua apertura. Condividere il lutto significa allora preservare il mondo come un luogo aperto del quale non si deve avere paura. Come accade in quel noto esperimento di psicologia evolutiva dove si invita un bambino piccolo a gattonare verso un precipizio illusorio. Se il volto della madre che lo osserva reagisce con un’espressione di spavento, il bambino si blocca e si mette a piangere disperatamente. Se, invece, la madre risponde con un sorriso il bambino, dopo un attimo di esitazione, riprende a gattonare attraversando felice e sicuro il precipizio. La paura è dissolta. Ecco la responsabilità che ci investe: dare prova di saper resistere, di fronte allo sguardo impaurito dei nostri figli, alla tentazione della chiusura. Nella vita dei nostri figli — nella vita dell’innocente — è custodito il segreto del mondo. La vita dei nostri figli coincide con l’avvenire, con il dono, con la vita stessa del mondo. Sopprimerla è voler sopprimere la vita del mondo. Tenere aperto il mondo è, dunque, la sola possibilità di continuare a fare vivere i nostri figli. Solo se non tutto è morte, la vita può avere ancora un senso.
Questo non significa sottovalutare il delirio teologico che ispira questi assassini. Il loro mondo vorrebbe sopprimere il mondo in quanto tale. È la manifestazione più odiosa del fondamentalismo. Essi ci dicono: «Il tuo mondo non vale nulla, è fatto di concerti e cose frivole, è fatto solo di polvere; il solo mondo che conta è il mondo al di là del mondo dove i martiri saranno ricompensati illimitatamente del loro sacrificio». Ecco, noi siamo, invece, quelli che abitano il mondo. È questa la prova che dobbiamo sostenere per amore dei nostri figli: mostrare loro che questo mondo fatto di polvere è in realtà anche ricco di luce, che non tutto è morte. Si tratta di testimoniare più che spiegare. Testimoniare cosa? Testimoniare l’apertura e non la chiusura del mondo. Come? Non avendo paura, rifiutando l’angoscia, respingendo la rassegnazione. Mostrare che la morte non è l’ultima parola sulla vita. Non lasciare che l’illusione teologica dei terroristi trasformi il nostro mondo in un luogo di polvere e di paura. Di fronte al flagello inesorabile dell’epidemia che trascinava con sé le vite di bambini innocenti, il padre gesuita Paneloux, uno dei protagonisti del romanzo “La Peste” di Camus, distingueva gli uomini in due tipi: quelli che fuggono dal dolore e dalla malattia e quelli che restano. Condividere il lutto — fare del lutto un evento collettivo — significa mettersi, di fronte agli occhi smarriti dei nostri figli, dalla parte di quelli che sanno restare, che sanno, appunto, mantenere sempre aperto l’orizzonte del mondo.
domenica 14 maggio 2017
giovedì 11 maggio 2017
RAGAZZI FRAGILI
Aproposito della relazione genitori e figli il nostro tempo sembra sostenere due imposture o, se si preferisce, due retoriche pedagogiche egualmente distorte. La prima è quella delle regole. Esiste una vera e propria industria culturale che produce libri di ogni genere e specie che dovrebbero accompagnare i genitori nel loro dressage disciplinare del figlio. Il volto severo, oscuro e minaccioso della Legge è stato sostituito con quello più moderato e pragmatico delle regole. Una serie per ogni sequenza comportamentale. I manuali di "psicopedagogia" prêt-à-porter nordamericani, ma anche nostrani, ne sono infarciti: come fare per addormentare il proprio bambino, per farlo mangiare, per farlo studiare, per farlo socializzare. Questo nuovo impero della regola si associa solitamente a quello della medicalizzazione sospinta della vita: educare significa normalizzare e se un figlio dimostra di non corrispondere all'ideale positivo della normalità sarà immediatamente consegnato alla presa severa della diagnosi psichiatrica che, non a caso, la versione recente del "Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali" sembra estendere a ogni livello dell'esperienza non negando a nessuno la sua etichetta (che è sempre una piccola etica, ironizzava Lacan): disturbi dell'appetito, dell'apprendimento, dell'attenzione, del sonno, dell'umore, eccetera. Il mito della regola e quello dell'uso inflattivo dell'etichettamento diagnostico si sostituiscono così al lavoro duro, paziente e incerto dell'educazione.
La seconda impostura dominante è quella del dialogo, dell'empatia e della comprensione reciproca tra genitori e figli.
Chi oggi riuscirebbe, senza essere osservato con sospetto, a introdurre il dubbio che forse il dialogo tra genitori e figli è una chimera, una illusione, che dialogare con i propri figli si rivela molto spesso un'attività del tutto inconcludente? Consiglio a questo proposito la lettura attenta di Pastorale americana di Philip Roth dove gli sforzi generosi e inesausti del mitico "svedese" di dialogare con la propria figlia adolescente si rivelano votati fatalmente allo scacco. Chi oggi avrebbe il coraggio di ricordare che più che comprendere i propri figli il vero dono della genitorialità è quello di rispettare il loro segreto, ovvero la particolarità insostituibile, talvolta ai nostri occhi bizzarra e, appunto, del tutto incomprensibile, del loro desiderio? Desiderio che non può che manifestarsi, sé è davvero tale, ovvero se è il desiderio del figlio, come una deviazione anarchica dal "piano della famiglia", come il giovanissimo Giacomo Leopardi lamentava nella sua accorata lettera al padre Monaldo. Lo sappiamo per esperienza: molto spesso il dialogo coi figli non mira tanto ad ascoltare davvero la parola del figlio ma a volerlo condurre sulla via che noi riteniamo la più giusta. La responsabilità educativa non può dunque essere ridotta né alla determinazione prescrittiva delle regole (ivi compresa la classificazione del comportamento deviante da tali regole come necessariamente patologico), né al perseguimento della comprensione empatica che spesso significa assimilare la vita del figlio ai progetti dei genitori. La via è assai più stretta e scomoda e nessun manuale potrà dispensarci dalle difficoltà. Questo significa fare spazio alle possibilità della caduta, dello smarrimento e del fallimento.
Non dovremmo, infatti, come genitori mai dimenticarci che ogni figlio è, in quanto erede, un figlio eretico, cioè diverso da come noi ci attendavamo che fosse. Il grande dono della genitorialità non è amarlo nonostante questa differenza, ma proprio a causa di questa differenza.
(Massimo Recalcati, la Repubblica, 10 maggio 2017)
Trovo questo articolo molto condivisibile e fondamentale nella comprensione del rapporto vecchi-giovani. Ho solo una sottolineatura da fare e si insinua nella "via stretta e storta":nel riconoscimento della ereticità necessaria del crescere credo che i genitori abbiano un piccolo portafoglio da spendere che deriva dal credito come adulti e come testimoni. Questo credito, speso non sulla coercizione, ma sull'affetto, può offrire ai figli il patrimonio dell'esperienza - la velocità del crescere ha bisogno della lentezza dell'essere, dell'esserci, dell'essere interlocutori, specie nei momenti di transizione e crisi.
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