La moda (e soprattutto la Milano della moda) è stata uno dei bersagli preferiti di Cuore, il settimanale satirico che feci, con un manipolo di valenti autori e redattori, tra la fine degli Ottanta e la metà dei Novanta. Eravamo giovani e allegri e ditemi voi se non faceva ridere il fiorire di catenoni, borchie e pellami dello stilismo meno cosciente (per intenderci, meno cosciente di quanto burino possa essere un giubbotto borchiato, o una mutanda d’autore che sbuca da un paio di brache a cacarella); e ditemi se non facevano ridere anche tutto il frou frou e tutto lo chichi, le svenevolezze da sfilata (si baciavano tantissimo tutte e tutti). Facevano ridere, e facevano anche pensare: primi, sinistri bagliori della decadenza occidentale?
“Lo stilismo malattia senile del capitalismo”, scrissi sull’Unità dopo avere assistito a una sovreccitata “festa della moda” in piazza Duomo. Eravamo, noi trentenni di sinistra di allora, molto poco interessati all’abbigliamento, eravamo casual e grunge prima che esistessero il casual e il grunge. Jeans, magliette e maglioni, camicie come capitava, giacche militari usate, ai piedi scarpe da tennis (molto pre-sneakers) o le Clarks o scarpe purché informi. I golf di Benetton come unica concessione alla galoppante avanzata dei marchi, che allora nessuno chiamava ancora brand. Coltivavamo una specie di snobismo anti-griffe, una ineleganza tenacemente perseguita che magari, per puro caso, poteva diventare elegante. (Esistono, per esempio, fotografie di Guccini, ai suoi primi trionfi dei Settanta, che sono ottima testimonianza di quel genere di invidiabile noncuranza). I sanbabilini prima, i paninari poi, per mettere in chiaro che la loro tribù considerava disgustosa la nostra (e viceversa), erano tutti in tiro, attillati e firmatissimi.
Ho ancora nitido il ricordo, decisamente esilarante, di quando, giovane redattore della pagina spettacoli dell’Unità, andai alla Stazione Centrale a prendere Edoardo Sanguineti, che arrivava dalla sua Genova per una prima teatrale. Era uno dei poeti italiani più importanti, il suo prestigio intellettuale metteva molta soggezione a un mozzo appena salito a bordo, quale ero. Avevo, a parte i jeans d’ordinanza, uno di quei maglioni peruviani urticanti che oggi sarebbero messi al bando come armi improprie, e per completare il quadro un paio di zoccoli svedesi, che allora furoreggiavano. Sanguineti, con il classico completo grigio (o marrone) dei comunisti del lungo dopoguerra italiano, fieramente liso, mi guardò inorridito. Prima mi chiese se ero davvero io quel Serra che conosceva per telefono, e gli era parsa, fino a lì, una persona presentabile. Poi mi fece promettere che se lo avessi accompagnato a teatro mi sarei cambiato («non possiedi un paio di scarpe?»), cosa che feci migliorando però di pochissimo il mio look.
Il tempo poi rimescola le carte. I maglioni peruviani mi sembrano ciò che erano: ridicoli almeno quanto i giubbotti borchiati. E la Milano della moda e del design, che ai tempi mi sembrava tutta fronzoli e bollicine, ha via via smentito il grosso dei miei pregiudizi – anche se mi tengo stretta una punta di fastidio per la querula frenesia degli “eventi” nei localini e localoni, strade intasate e malori tra gli addetti per la troppa emozione, e si tratta della presentazione di un comodino o di un bottone.
Alla fine è il lavoro (anche il mio) che crea spessore, crea sguardo, costruisce piano piano l’edificio della conoscenza. E anche i fronzoli e le bollicine, dopotutto, richiedono lavoro. Ho poi conosciuto designer che ragionavano come operai, in botteghe incasinate, trucioli e ferraglia ai piedi dei computer. Febbrili e mai contenti, sempre in cerca della curvatura giusta e della finitura migliore. Ho chiacchierato e bevuto del buon rosso con Tai Missoni, persona semplice e splendida, e sono diventato amico di Antonio Marras, disegnatore febbrile, accumulatore e ordinatore di eserciti di oggetti: nel suo spazio milanese ho potuto capire quanto arte e moda si parlino e si scambino opinioni. Certo, non sono più il mozzo che accompagnava Sanguineti al Piccolo, le certezze professionali e la sicurezza economica smussano parecchi angoli, del mio moralismo giovanile serbo un ricordo rispettoso, ma non lo rimpiango. Ma non è questo, il tema. Il tema è che il saluto di Giorgio Armani al mondo, “io sono il mio lavoro”, mi tocca davvero il cuore. Mi inchioda a quello che penso – anche se penso pure altre cose: ma la gioia e la potenza del lavoro, se è un lavoro che ti piace, che costruisce qualcosa, è un bene impagabile, per l’individuo e per la comunità in cui vive.
So che è un concetto profondamente boomer, mutuato dagli italiani usciti dalla guerra come Armani; ne abbiamo molto discusso, in questa newsletter, e molti trentenni e ventenni avevano da ridire, su questo culto del fare come stella polare, e quasi come senso della vita. E mi hanno spiegato le loro ottime ragioni per diffidarne. Però la Milano in fila, silenziosa e rispettosa, composta e pensosa, davanti al feretro e per molti aspetti davanti a se stessa, non era certo una città di soli anziani; e al di là del colpo d’occhio anagrafico, molto vario, non era una città che rimpiangeva qualcosa, era una città che teneva fermo il punto, in tempi complicati, in attesa del giorno dopo. C’è una solidità, nella morte di Armani, che non lascia il tempo di pensare al vuoto. C’è troppo da fare, chissà se riusciremo a farlo bene. Fronzoli e bollicine compresi.
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